di Iannozzi Giuseppe
Il primo dell’anno Alberto si svegliò con la testa pesante, in un vicolo, che non era ancora l’alba.
Nessuno l’aveva battuto in testa, né era stato derubato: ricordava solo che a un certo punto i fuochi in cielo avevano cominciato a dargli fastidio, così s’era rifugiato in quel posticino buio, sporco però, pieno di ratti, di bottiglie dal collo spezzato, di bidoni dell’immondizia stracolmi che nessuno avrebbe saputo dire bene di cosa.
Si mise un po’ in ordine, stazzonò i vestiti alla bell’e meglio, cercando di farli sembrare studiati con tutte quelle pieghe, ma il puzzo che ne veniva lo tradiva. S’arrese, e decise ch’era ora di far ritorno a casa. C’era solo un piccolo problema: sua moglie che non l’avrebbe fatto arrivare manco sull’uscio se solo si fosse accorta di qualcosa di strano. E in quel momento, non lo poteva negare a sé stesso, era strano: e per di più non si sentiva particolarmente bene.
Si sentiva come dopo aver scopato come un riccio e al mattino svuotato di tutto, tranne del desiderio d’un caffè e d’un paio d’uova. Ma spiccioli in tasca non ne aveva e le vetrine erano tutte buie. Si ricordò allora che era domenica, la domenica dopo il primo dell’anno. Un panico umidiccio gli corse dalla schiena fin sulla fronte: subito arrivò a toccarsi il deretano, tastandolo, cercando di capire se qualcuno…; ma no, non gliel’avevano ficcato nell’ano a sua insaputa, non gli prudeva il buco del culo. Era solo stanco, stanchissimo. Ecco cosa. Si sentiva svuotato, manco avesse sfondato una vacca di cento chili. Il pipino gli stava costretto nelle mutande, piccolo, inerte, incapace anche solo d’un guizzo. Si frugò allora nelle tasche, senza sapere che cercare e perché: ne trasse fuori un foglio tutto stropicciato, piegato più volte, quasi custodisse chissà quale segreto o promessa. Alberto lo aprì e subito riconobbe la sua calligrafia, per una stupida poesia. L’immediata tentazione fu quella d’annegarla in uno dei tanti rigagnoli che correvano come vene lungo la strada; ma poi ci ripensò, perché se l’aveva tenuta doveva esser per qualche motivo importante.
Sei una rosa,
ma non vera
Solo le tue spine
trafiggono la carne;
in disparte
l’anima,
gentile sì
così scintillante,
un diamante
certamente duro
che taglia via
i vincagli maligni
dell’amor portato
con disonesta offerta
Alberto ebbe un conato, un suicidio nel cavo orale, la brutta sensazione che dovesse rimettere anche l’anima: possibile che l’avesse scritta lui? Eppure sì, era proprio la sua calligrafia, non c’erano dubbi in merito: non era così svanito da non saper più riconoscere l’agitazione delle parole vergate dalla sua mano, sempre tremante, per un brutto difetto d’ansia. Ma per chi era, e perché, perché riposava nella sua tasca? Quella cosa scritta doveva essere per qualcuno, non erano le sue tasche il posto giusto.
Sei una rosa
Ma quant’è vero
che ti manca
il rosso acceso,
dell’ardore
l’eternità!
A tutti le doni
le tue spine
sulla nuda pelle
per una goccia di sangue,
per una appena
Sol questo ti tenta
T’inganna
E per sempre
ti lascia da sola
Ne ebbe disgusto, totale a fine lettura. Era la cosa più stupida che avesse letto, e il peggio era che l’aveva scritta proprio lui. Fu in quel momento che realizzò che l’amore degli uomini è cosa invero banale: ci s’innamora solo per un “fino alla morte”, che mai poi viene onorato né dal maschio né dalla femmina. Nonostante il disgusto per quelle melliflue parole, che ancora stentavano a dileguarsi nella nebbia del suo cervello, abbozzò un sorriso. E nello stesso frangente, mentre il sorriso gl’invadeva il viso, tosto su quello stesso volto gli moriva, oramai folgorato dalla verità di quanto gl’era accaduto durante la notte. Com’era possibile che avesse dimenticato di…? E perché adesso tutta questa repulsione gli sbranava le budella? Qualcuno avrebbe detto che s’era cacciato in una situazione kafkiana, il suo vecchio professore di Lettere, sì, e molti altri. Ma lui non s’era cacciato in un bel niente: molto più drammaticamente quella situazione la viveva e non la capiva né aveva i mezzi e l’intelligenza, o anche solo il cuore, per comprenderla. E non voleva: forse solo di questo desiderio era per metà sicuro. Però il disgusto era sincero: era stato l’amante d’un travestito e la notte l’aveva passata con lui che gliel’aveva succhiato, che gliel’aveva preso in bocca l’amore inghiottendolo per assimilarlo nelle sue viscere. Capiva ora perché si sentiva come svuotato, più debole e impacciato d’un agnello appena venuto alla luce. Con la differenza sostanziale che lui non era affatto innocente.