Mancano 27 secondi alla fine del secondo tempo supplementare. E’ il 22 novembre
2003, finale della Coppa del Mondo di rugby, Telstra Dome, Sydney, Australia, 82 mila spettatori sulle tribune e, in quel preciso secondo, altri 29 spettatori—15 australiani e 14 inglesi — in campo, senza contare arbitro, guardalinee, giudice televisivo, raccattapalle, allenatori e panchinari, e senza contare quel mezzo miliardo davanti alla tv, tutti a guardare quello che sanno, quello che già sapevano, quello che si aspettano e si aspettavano, quello che temevano o che si auguravano.
Jonny Wilkinson, il numero 10 dell’Inghilterra, riceve un pallone pulito dal mediano di mischia Dawson e, protetto dalla mischia, a 30 metri dalla linea di meta australiana, lascia rimbalzare il pallone e lo calcia: fra i pali, sopra la traversa. Si chiama drop ed è la più scaltra, beffarda, gelida delle strategie con cui segnare agli avversari. Una revolverata sarebbe meno crudele e cruenta. Match chiuso: 20-17 per gli inglesi, nuovi campioni del mondo.
Ieri «Wilko» ha detto basta: basta partite internazionali con la Nazionale inglese. Un romanzo lungo 14 anni, il primo capitolo cominciato il 4 aprile 1998 (non aveva neanche 19 anni) alzandosi dalla panchina nella vittoria contro l’Irlanda, al Cinque Nazioni, l’ultima parola scritta 8 ottobre 2011 uscendo dal campo nella sconfitta contro la Francia, in un quarto di finale della Coppa del Mondo. Sul suo sito Internet, ha annunciato il ritiro dai palcoscenici internazionali con la consueta eleganza: «Farlo mi riempie di grande tristezza, ma so di essere stato benedetto in così tanti modi per quello che ho provato con l’Inghilterra».
I numeri sono straordinari, ma non dicono tutto : 91 partite e 1179 punti, 97 e 1246 se si considerano anche gli incontri nella supersquadra dei British and Irish Lions.
Jonny nasce con un piede, il sinistro, magico. Se Maradona palleggia con le arance, lui calcia palline di carta nei cestini dei rifiuti. E già a 12 anni dentro di sé lo giura: «Tutto quello che voglio è giocare per l’Inghilterra». Rugby, ovviamente, però intanto si misura anche a tennis, cricket e basket. Stavolta la faccia da primo della classe non è un inganno: «JW» è bravo negli studi quanto nel rugby, mediano di apertura e primo centro e anche calciatore, regista e realizzatore, stratega e trascinatore. Nel 1997, appena conquistata l’università, si trova già al bivio: da un paio di anni il rugby è professionale, e lui s’iscrive ai Newcastle Falcons. David Beckham e Wilkinson sono i due numeri 10 più celebri in Inghilterra, contemporanei, ma anche i più diversi che si possano immaginare: Beckham è voce del verbo apparire, Wilkinson del verbo essere; Beckham campa, si moltiplica, specula sui pettegolezzi, Wilkinson li schiva, li annulla, li spedisce in touche; Beckham frequenta stilisti e discoteche, Wilkinson la casa dei genitori e la club-house; Beckham si trasforma come se fosse sempre alla ricerca della propria autentica identità, Willdnson è sempre se stesso, sempre più Jonny e sempre più Wilkinson.
Capace di allenarsi, da solo, senza rimpianti e senza sofferenza, anche il giorno di Natale. Stampella Wilkinson non è solo l’uomo del drop mondiale del 2003, eseguito non con il suo magico sinistro, ma con il destro, che per altri mancini superdotati sarebbe stato solo una stampella. Lui possiede anche l’arte del calciare, e poi del passare (in gergo si dice «trasmettere», e dentro c’è molto di più che un semplice pallone ovale), del placcare, del prevedere, dell’impostare. Sublime attaccante, ma anche solido difensore. E sempre figura di riferimento. Tanto che, senza Wilkinson in campo, l’Inghilterra sbanda e traballa, s’incupìsce e si rimpicciolisce.
Ma «Wilko» non molla. Continuerà a giocare in Francia, nel Tolone, apertura e primo centro, come quando aveva cominciato. «La decisione presa non cambierà il mio stile di vita - ha spiegato —. Più passa il tempo, più tempo dedico ad allenamento e preparazione. Perché voglio godere dovunque mi conduca il sentiero del rugby».
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