La calabrese (Pasquale Urso: incisione su rame)
Un certo languorino (di sapori forti salentini)
Procediamo nella descrizione della seconda parte (di tre) della giornata di piena estate che un salentino molto impegnato, molto importante e molto stressato ha deciso di trascorrere con uno scomodo ospite stanziale, il suo Super-Io.
Siamo all’ora di pranzo e il mitico dottor Pigi Babbarabbà, misconosciuto manager della sanità pubblica pugliese del terzo millennio, peraltro con una certa notorietà legata non già alla sua fama, ma alla sua leggendaria fame, avverte un certo languorino e si avvia risoluto verso il frigo per tirar fuori un pentolone ricolmo di spaghetti da riscaldare e mandar giù, quando viene stoppato dal Super-Io che gli ricorda la promessa di ferrea dieta (insalatina verde), con la piccola licenza di qualche pomodoro, un paio di peperoncini piccanti e un cucchiaio di olio d’oliva extravergine; e, già che ci siamo, un mezzo panino. ma forse è meglio intero. E mentre passa e ripassa la crosta del pane sui bordi del piatto a cercare qualche residua e sparuta gocciolina d’olio da arruolare, il metafisico dialogo riprende, a partire proprio dall’olio, dal buon olio salentino, dalle olive, e gli ulivi.
Atto II: all’ora di pranzo (dopo l’ultima “scarpetta”)
Degli ulivi del Salento
Caro Super-Io, gli ulivi del Salento sono senza dubbio i più maestosi e “sofferenti” alberi della terra, direi persino più dei baobab. Sofferenti, perché, se fossero “umani”, con quei loro tronchi contorti, potrei dirli, da medico, affetti da artrite deformante. In realtà ti voglio confidare (ma non lo farlo sapere in giro), che gli ulivi sono realmente esseri umani o, meglio, lo furono un tempo: come tutti gli esseri umani, si portano dietro, scolpiti sul tronco, il dolore e la sofferenza della vita, ma anche la loro maestosa, incomparabile bellezza. Le immense fronde, un provvido riparo dall’estiva calura e fonte feconda d’un frutto piccolo, povero e prezioso insieme. Quello che invece gli sprovveduti amici del Nord transpadano non possono sapere è che gli uliveti salentini sono immensi castelli nobiliari a cielo aperto, popolati (come i ben più noti manieri scozzesi) da fantasmi viventi, spiriti errabondi e silenziosi insieme: gli ulivi.
Mettersi in contatto con costoro non è la cosa più semplice di questo mondo; è necessario, infatti, riuscire a entrare in sintonia con il carattere dell’esemplare contattato ed è impresa, questa, tutt’altro che facile; per un mero colpo di fortuna, a me è riuscito di farlo ed è stata un’esperienza fantastica, indimenticabile, quasi onirica, ma autentica: pensa che Oreste (era questo il nome dello spirito), frusciando al vento, mi ha persino confidato che il suo dispiacere più grande è stato quello di essere diventato il simbolo di uno schieramento politico. Come dargli torto?
Poi, gli ho chiesto se un giorno toccherà anche a me diventare un austero ulivo. Mi ha risposto sibillinamente che quest’onore è concesso solo ai grandi uomini: che abbia voluto dirmi di no? O non si riferiva, magari, forse, alla mia stazza, con sottile ironia? Tu che ne pensi, amico mio?… Mah!. Ma quale che sia la giusta interpretazione, resta il fatto che Oreste è spirito di ottima compagnia e possiede una grande vena umoristica (in fondo, non è poi così difficile, per uno spirito, essere “spiritoso”: battutaccia!). Ad ogni modo, mi ha raccontato un mucchio di storielle divertenti, quale, a titolo d’esempio, la vera storia (“vera” a suo dire, ovviamente) d’Orfeo ed Euridice, che mi ha fatto morir dal ridere. Forse, se ne avrò il tempo, te ne racconterò qualcuna di queste storie e, magari, le diffonderò anche ai poveri lettori di questo strano coacervo di pensieri in fuga, di sogni sottesi e di ricordi annacquati.
Ruby, Bury e “li pipirussi ‘mari blu”
E adesso, amico mio, poiché ho la bocca ancora in fiamme, prima che mi prenda l’abbiocco post-prandiale ti racconto una storia vera o, almeno, come tale me l’hanno raccontata. In un mite e luminoso pomeriggio di un paio d’anni fa, si era in primavera inoltrata, giunse a Porto Badisco un pullman scolastico della Valtellina, stracolmo di giovani festanti e di insegnanti già mezzi esauriti per quel compito ingrato. I ragazzi e le ragazze, tutti in abbigliamento casual, jeans e T-shirt, schizzarono giù dal pullman non appena giunto all’interno dell’ampio piazzale sterrato destinato a parcheggio e si dispersero in tutte le direzioni. Restarono nei pressi del grosso automezzo solo due belle fanciulle, dai lineamenti esotici e dal colorito della pelle intenso, che svelava le loro origini, rispettivamente, nord e centro-africane. Le due splendide fanciulle discutevano piuttosto animatamente, forse sul concetto filosofico dell’immortalità dell’anima nelle diverse religioni, ma nessuna delle due riusciva a prendere il sopravvento sull’altra.
A pochi metri di distanza, in una lussuosa cabriolet nera, osservava la scena un anziano signore dai lineamenti tirati e stirati dal botulino e (in più riprese) dal costoso bisturi di qualche grande luminare della chirurgia estetica: con un perenne sorriso asimmetrico da dongiovanni impenitente, aveva lo sguardo rapito ed estasiato dal concitato dibattito delle fanciulle ed era evidente che avrebbe tanto voluto intervenire in prima persona, per elargire alle fanciulle un pizzico del suo sommo sapere, ma gli mancava il coraggio. Probabilmente, quell’improvvisa, “impertinente ed impotente” timidezza era un effetto collaterale della sua fisiologica (senile) caduta di steroidi maschili. Che fare? Gli venne in aiuto il suono sordo, metallico e aritmico di uno scampanellio che annunciava il passaggio di un gregge.
Il rumore lo fece voltare e il suo sguardo cadde sul mazzetto di peperoncini colorati in mano al pastore, il mitico Totu Mazzarrignata. L’anziano signore chiese al pastore cosa fossero, in particolare, quegli stranissimi piccoli peperoncini azzurri e il buon uomo gli confidò, in un orecchio e a bassa voce, che si trattava di frutti rarissimi, dotati di un eccezionale potere energizzante, al punto che stava pensando di dover cambiare il soprannome in “Mazza-tosta-comu-li-cuti-de-Santa-Cisaria-pocca” da quando, consumandone ogni giorno due, uno a pranzo ed uno a cena, aveva ripreso il pieno vigore di tutte (ma proprio tutte) le “facoltà maschili”. Il ricchissimo anziano chiese ed ottenne di acquistare l’intero mazzo di peperoncini per 1.000 Euro, ma non prestò ascolto ai consigli di cautela del pastore, ingurgitando ben cinque peperoncini azzurri in un sol colpo. Un disumano grido gutturale (del tipo “Incredibile Hulk”) ed un formidabile balzo, senza slancio né appoggio, al di fuori dall’auto furono la dimostrazione lampante ed immediata dello straordinario potere di quelle misteriose bacche azzurre. Seguì un serratissimo dialogo del vecchio impomatato con le due ragazze che gli confidarono di aver da poco superato la trentina e di essere, rispettivamente, Ruby, la nipotina prediletta di Hosni Mubarak e, Bury, la cugina di primo grado di Jean Bèdel Bokassa, dal quale, però, si era apertamente e totalmente dissociata, avendone contestato l’ignobile operato. Il vecchio riuscì ad entrare in perfetta sintonia con le ragazze, in onore delle quali organizzò un memorabile festino notturno, ovviamente di contenuto (quasi esclusivamente) letterario: Ruby e Bury furono trattate con tutti gli onori del caso, come meritavano in ragione delle loro illustri e nobili parentele.
Qualche giorno dopo si seppe però che le ragazze avevano appena raggiunto la trentina sì, ma solo come sommatoria delle loro età (16 anni la prima e 14 la seconda). Il vecchio scoppiò in un pianto dirotto per quella terribile menzogna ed a tutti i presenti venne spontaneo un sentimento di grande solidarietà per quel pover’uomo, buggerato così da due spudorate fanciulle che si erano fatte gioco e beffe di lui, approfittando dell’inesorabile incedere del suo declino non solo fisico, ma pure cognitivo.
Purtroppo, però, per colpa della loro potente parentela, riuscirono a cavarsela senza neanche una sonora e vigorosa sculacciata. Mannaggia lu pipirussu ‘maru!