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Il trucco dell'articolo 18

Da Brunougolini
È un trucco quello adottato dal governo sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la norma che impedisce i licenziamenti facili. Hanno giocato come dei prestigiatori facendo scrivere alle agenzie di stampa: "l'articolo 18 non sarà toccato". Poi uno va a vedere e scopre che  se ora non verrà toccato, più tardi si. L'esecuzione sarà affidata alle parti sociali disponibili che nel contratto aziendale, una volta seppellito quello nazionale, potranno scrivere molti tipi di deroga, compresi quelli relativi ai licenziamenti e quindi all'articolo 18.
 E laddove, come spesso avviene, non esistono strutture sindacali? Qualcuno metterà in piedi un sindacato giallo. Certo forse non si potrà licenziare uno perché è iscritto alla Cgil, come si faceva  ai vecchi tempi. Niente "licenziamenti discriminatori". E però si potrá spedire a casa uno che non appare abbastanza svelto nello spostare i pezzi o che non si mostra ossequente verso il capo di turno. E così il lavoratore non solo sarà colpito da una gragnola di colpi (tariffe dei servizi aumentate da comuni e regioni, assistenza negata ai genitori malati, aumenti del costo della vita). Avranno anche sulla testa, una volta in fabbrica, la spada di Damocle di un improvviso licenziamento perché osa protestare.
Ecco perché nel centrodestra quella parolina  "licenziamenti" piace. L'aveva tirata fuori, quasi come per caso, Giulio Tremonti nella sua flautata seduta parlamentare addebitandola, con palese inganno, alla lettera segreta dell'Unione Europea. La verità è che in molti esponenti del centrodestra permane un'acuta nostalgia di tempi andati, quasi medioevali, quando era in voga il cosiddetto licenziamento "ad nutum". Il padrone o un suo rappresentante, il caporeparto, alzava un dito verso una persona, e quella era destinata a cessare il rapporto di lavoro: licenziato.
Tutto questo servirà all'economia del Paese? Provo a mettermi nei panni di un imprenditore. Un uomo, o una donna, proprietari di una media azienda, magari situata nel favoloso Nord-Est. Legge tutte le mattine i giornali, guarda la televisione, assiste con gli occhi sbarrati e i pensieri confusi, al crollo dell'economia mondiale, non sa che cosa fare per salvaguardare il futuro della propria impresa già assillata da mille problemi. E che cosa legge, intuisce, vede? Che il governo, tramite, i solerti ministri Tremonti e Sacconi, spesso dichiarati eredi di una gloriosa tradizione socialista, quella di Turati, Matteotti, Buozzi, Pertini, Nenni, Lombardi, Brodolini, Giugni, gli offrirebbero uno scalpo fondamentale: l'articolo 18. Una ricetta accompagnata dalla ennesima drammatica frattura fra i sindacati, da un possibile sciopero generale capace di catalizzare il malcontento di una discreta parte del Paese, leghisti compresi. Questo sarebbe il toccasana che dovrebbe ridare a quell'imprenditore o imprenditrice, la fiducia nei mercati, la voglia d'investire, di assumere, di rilanciare l'impresa. Eppure la stessa Confindustria della signora Marcegaglia aveva fatto capire come il Paese più che mai avesse bisogno di coesione, unità, non di scontri sociali.
C'è però chi dice, anche a sinistra, che cancellando la protezione dettata dall'articolo 18, ma valida solo nella grandi e medie imprese, si aprirebbe la strada del paradiso per i precari. Tutti destinati ad essere assunti quando fosse imperante la legge per cui tutti potrebbero essere però licenziati, sia pur con qualche motivazione. E così facendo, però, quel futuro nuovo contratto "a tempo indeterminato" non sarebbe affatto a tempo indeterminato. 
E nessuno potrebbe dimostrare,ricorrendo alle statistiche, che i licenziamenti facili sono la strada maestra per incrementare l'occupazione, per aiutare la crescita economico-produttiva. È un'equazione che non sta in piedi nel nostro e in altri Paesi (in Usa i licenziamenti facilissimi non hanno fermato la crisi). Se avesse un fondamento bisognerebbe dimostrare che in quell'epoca del licenziamento "ad nutum", negli anni 50, prima della riscossa operaia, prima dello Statuto dei lavoratori, voluto da ministri quelli sì socialisti, le imprese erano rigonfie di lavoratrici e lavoratori. Anche in Sicilia, anche in Calabria, in Campania c'era forse e non ce ne siamo accorti un tasso di disoccupazione di tipo norvegese?
Senza contare il fatto che anche le protezioni previsto da questo Statuto dei lavoratori, dai governanti considerato "antiquato", spesso e volentieri, quando soffia la crisi, viene spazzato via. Lo dimostra l'elenco delle aziende che ogni giorno chiudono i battenti e lasciano a casa i lavoratori, per sempre o nel limbo della cassa integrazione. E i primi ad essere colpiti sono proprio loro, i giovani. Il centro di ricerche DataGiovani ha reso noto che oltre 427 mila giovani nel 2010 hanno perso un posto di lavoro che avevano nel 2009. I licenziamenti facili ci sono già e sono frutto della Grande Crisi. Non c'è proprio bisogno di agevolarli con nuove norme. Non serve a loro e non serve agli imprenditori. Sarebbe necessaria invece una politica atta a incrementare la crescita, a dare uno scossone all'economia, a impedire quell'abuso di precari che dispiace perfino a Tremonti, riconsegnando loro diritti e tutele. Tagliando, per combattere il soffocante debito pubblico, privilegi e rendite, non tagliando il mondo dei produttori, quelli che formano la ricchezza del Paese. Loro sono le fondamenta, i nostri pilastri, anche per affrontare il debito pubblico.

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