Quando parliamo di omicidi e di tutto ciò che gira intorno alla criminologia ci viene da pensare subito agli assassini seriali, coloro che spopolano nei film gialli o nelle serie televisive americane dedicate all’investagazione scientifica.
In questi giorni ho letto la storia di un ragazzo di nome Vincenzo Verzeni che abitava in una zona rurale dell’attuale provincia di Bergamo. Un ragazzo apparentemente tranquillo nato a Bottanuco nel 1849 nel bergamasco. Il padre un violento e un ubriacone che non faceva altro che picchiarlo e umiliarlo, la mamma di Vincenzo remissiva e bigotta. Una situazione economica non delle migliori; un quadro di famiglia non troppo positivo nel quale Vincenzo ad un certo punto della sua adolescenza se ne tira fuori scoppiando in un’ira devastatrice.
La rabbia e la frustrazione alimentate dai risentimenti troppo a lungo coltivati nel suo animo improvvisamente esplode creando panico e morte nelle campagne attorno a Bottanuco.
Uccidere era diventato per Vicenzo una vera professione e la sua prima vittima, una ragazza di 14 anni, Giovanna Motta fu il suo primo obiettivo.
Giovanna Motta stava recandosi a Suisio da alcuni parenti quando fu aggredita da Vincenzo. Il cadavere venne ritrovato quattro giorni dopo orribilmente mutilato. Denudata, scempiata e lacerata e peggio ancora privata della sue viscere e degli organi genitali. In bocca aveva terra e sassi e presentava graffi e morsi sul collo e sugli avambracci. Su un sasso lì vicino gli inquirenti dell’epoca trovarono dieci spilloni posizionati a raggera.
Verzeni non si ferma qui e continua a mietere vittime. E’ il 1872, Elisabetta Pagnoncelli viene trovata in un fossato scannata e sul corpo i segni dei morsi. Le modalità con le quali colpiva erano simili e quei morsi sui corpi delle poverette fecero presagire che Verzeni fosse un vampiro assetato di sangue.
Un tentativo, questa volta fallito, fu compiuto da Vincenzo sulla cugina Marianna sorpresa nel sonno: la ragazza si liberò dalla morsa delle mani del cugino atto a strangolarla e urlando mise in fuga il killer.
Nel 1869, Barbara Bravi viene avvicinata da uno sconosciuto che l’aggredisce ma la signora Bravi grida e riconosce il Verzani. Gli investigatori ricevono altre segnalazioni da parte di donne che riconoscono il “vampiro di Bergamo” mettendolo cosi alle strette. Vincenzo Verzani viene catturato, processato ma non condannato alla fucilazione grazie al voto favorevole di un giurato che costrinse il giudice a confinarlo ai lavori forzati a vita.
Durante il processo l’imputato dichiara: “io ho veramente ucciso quelle donne e ho tentato di strangolare altre perché provavo in quel modo un immenso piacere”. I corpi non presentavano graffiature ma morsi.
“Le graffiature che si trovarono sulle cosce non erano prodotte con le unghie ma con i denti perché io, dopo averla strozzata, la morsi e ne succhiai il sangue che era colato, con la quale godei moltissimo“.
Il “vampiro” Vincenzo Verzeni non dura a lungo durante la sua prigionia ai lavori forzati e cosi viene condotto in un manicomio giudiziario dove viene sottoposto a docce gelate, bagni bollenti ed elettroshock per curarlo da quella che sembrava più una malattia che un vero e proprio istinto animalesco.
Il 23 luglio del 1874 Verzeni viene ritrovato cadavere nella sua cella. Impiccato con una fune attaccata all’inferiata. Finisce cosi la storia di un uomo che colpiva per puro spirito di libidine sessuale affetto da gravissime turbe psichiche della sfera affettiva.
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