Continuano le letture “rinfrescanti”. Dopo i mostri reali,
avevo bisogno di ritornare a quelli letterari, o anche solo “metaforici”.
Saruman ha appena ricevuto schiaffoni in piena faccia dagli Ent, che gli hanno
letteralmente distrutto casa da sotto i piedi, e fatto fare una fine misteriosa
e terribile ad una buona parte dei suoi eserciti contro natura, e ora sta
affrontando Gandalf e Aragorn, decisi a tenere le orecchie chiuse ai suoi toni
mellifui da incantatore di serpenti. E, per contrastare il caldo, e rituffarmi
nell’amata letteratura inglese, ecco un altro vampiro letterario, che fu un
piccolo caso, a suo modo. Anche John William Polidori, il suo creatore, fu un
esempio singolare di uomo. Di origine italiana, fu medico, scrittore e segretario
nonché dottore personale di Lord Byron. Dev’essere stato un temperamento
particolarmente brillante e sanguigno, allo stesso tempo, di quelli che sentono
le emozioni espandersi in tutte le fibre fino ad impadronirsi della mente e
zittirla con impeto. Si laureò a vent’anni a Edimburgo, e costruì un rapporto
difficile e tormentato con il suo datore di lavoro e amico, nonché nemico e
principale antagonista, Lord Byron. Un rapporto in cui odio e amore erano
talmente intrecciati da confondersi e sconfinare nella morbosità e nello
scontro continuo. Dopo una rottura particolarmente esasperata con il poeta
inglese, e aver passato un brutto periodo di ristrettezze economiche,
trovandosi nell’impossibilità di saldare un debito, Polidori compose per se
stesso un veleno, con cui si tolse la vita nel 1821. Una fine “romantico-gotica”,
potremmo dire, perfettamente allineata con quella parte della tarda letteratura
Settecentesca, che virava verso il terrore e il fantastico, che aveva in Horace
Walpole e Anne Radcliffe i suoi massimi esponenti. Bram Stoker sarebbe arrivato
da lì a poco a rafforzare questo flusso, con il suo Dracula (1897), e a
trasformarla in qualcosa di più, di una semplice corrente letteraria. Ottantuno
anni prima, nel 1816, Polidori creò il suo Vampiro, in un’occasione
particolare, diventata poi celebre nella storia della letteratura.
Nell’estate
di quell’anno, Lord Byron e Polidori, Percy Bysshe Shelley e sua moglie Mary,
soggiornarono in una villa sul Lago di Ginevra. Costretti al chiuso da un tempo
atmosferico inclemente, che li copriva di pioggia, allestirono una sorta di gara
di scrittura di racconti dell’orrore. Solo Polidori e Mary Shelley presero sul
serio la competizione, e il risultato fu Il Vampiro e Frankenstein. Lord Byron
e Shelley scrissero alcune bozze e frammenti, che non ripresero. Polidori
scrisse un racconto, che poi scartò completamente, e colpito dal canovaccio
byroniano, lo riprese ed elaborò. Aggiunse all’embrione di personaggio che si
era ritrovato alcune caratteristiche che conosceva molto bene, avendole sotto
gli occhi tutti i giorni: un atteggiamento altezzoso, indifferente, una
personalità magnetica, ma volta al Male e alla soddisfazione egoistica, il
desiderio di rovinare la bellezza divorandola e buttandone via i resti, la
volontà di primeggiare, pur senza farsi toccare. Ecco Lord Ruthven, l’esasperazione
letteraria e la traduzione in termini negativi di Lord Byron. Questo almeno,
secondo la visione di Polidori. In questo breve racconto, Lord Ruthven,
aristocratico rubacuori molto eccentrico, fa amicizia con un giovane gentiluomo
scapestrato, di nome Aubrey. Quest’ultimo, attirato dal suo atteggiamento così
snob e incurante e dal suo carattere così ombroso e misterioso, organizza un viaggio
con lui per l’Europa, per aver occasione di studiarlo meglio. Presto, tuttavia,
si accorge della crudeltà e dell’indifferenza verso le vite altrui dietro
quella facciata, che lo porta a corrompere e sedurre giovani fanciulle nobili,
senza un ripensamento o un rimorso. Dopo aver sventato l’ultimo piano di
seduzione ai danni di una giovane romana, Aubrey lo abbandona e prosegue il
viaggio da solo. Non per molto: reincontrerà l’ex-amico in circostanze rocambolesche,
e in punto di morte, Lord Ruthven gli strapperà un giuramento. Per nulla al
mondo, Aubrey dovrà rivelare ad anima niente che lo riguardi, prima di un anno
e un giorno. Il giovane, perplesso, acconsente, e Lord Ruthven muore. Sembra
tutto finito? Tutt’altro. Aubrey torna in patria, in Inghilterra, e ritrova il
tenebroso gentiluomo, occupato nella sua attività preferita di cacciatore
rovinoso di fanciulle giovani e inesperte. Nel tentativo di contrastarlo, e di
tenere fede a quello strano giuramento, Aubrey finisce per ammalarsi e rischia
di smarrire la ragione, che finisce per perdere quasi del tutto quando scopre,
troppo tardi, che il vampiro si è insediato stabilmente nella sua famiglia. Come Stoker, Polidori sa come far crescere la suspense. All’inizio è lento, ma inserisce una certa dose di mistero e di incredulità, come se il personaggio stesso fosse indeciso se credere a ciò che vede e sente, e alle sue sensazioni. Fa intuire, più che dichiarare apertamente. La parola vampiro, in questo breve racconto, ricorre poche volte, rispetto all’argomento, e sempre a bassa voce, come se pronunciarla apertamente portasse sfortuna o attirasse disgrazie. Mentre Stoker è più ottimista, nel senso che i suoi personaggi sono spinti anche da un senso di fiducia in se stessi e nella razionalità, per cui riescono a mantenere i nervi a posto di fronte ad apparizioni spaventose, Polidori appare più in balia del lato oscuro. I suoi personaggi si ammalano perché i cuori sentono con troppo impeto le passioni, e si lasciano trascinare dalla paura evocata dal soprannaturale, invece di sgombrare la mente e reagire. Stoker vive in un’epoca apparentemente più stabile, in pieno post Rivoluzione Industriale, quando l’America stava correndo per aggiungersi al numero delle potenze mondiali, quando le scienze empiriche stanno prendendo piede, e l’ottimismo della creazione fa pensare all’uomo di essere in grado di imbrigliare tutto, anche le forze apparentemente meno controllabili. Polidori non regge le pressioni nella sua breve vita intensa, e se ne va “sbattendo la porta”, di sua mano. Sia Stoker sia Polidori modellano i loro vampiri su personaggi che avevano sotto gli occhi: anche Stoker fu a lungo segretario e manager personale di Henry Irving, grande attore inglese della sua epoca. Mentre il secondo era forse schiacciato dalla personalità invadente di Byron, al punto di soffrirne fisicamente, Bram Stoker ebbe un lungo rapporto di fiducia con il suo datore di lavoro/amico, almeno fino alla morte dell’attore. In qualche modo, questi uomini famosi, un poeta e un attore, dalla personalità molto marcata e sempre da protagonista, erano in qualche modo percepiti come invadenti, ed estenuanti. Stare dietro a persone abituate a stare al centro, e a comportarsi come fossero i primi di tutti, non doveva essere facile e forse lasciava un po’ vuoti e sfiancati, esattamente come un vampiro lascerebbe vuota la sua vittima, dopo averle portato via il sangue vitale.
In questa edizione dei Tascabili Economici Compton, tuttavia, è contenuto anche un altro brevissimo racconto, Un mistero della campagna romana, di Anne Crawford. Di questa scrittrice si sa veramente pochissimo: era figlia di Thomas Crawford, scultore inglese, che visse per diverso tempo in Italia. Anche qui c’è un vampiro, ma si tratta di una donna: la tenebrosa Vespertilia, che seduce e vampirizza l’istrionico protagonista della storia, Marcello, un cantante lirico italiano. La storia è raccontata da un amico di Marcello, e da una terza persona, un inglese con la testa sulle spalle e scarsa predisposizione a credere in fantasmi o creature sovrannaturali. Tuttavia, dovrà ricredersi quando vedrà con i suoi occhi apparire la bruna ed esangue Vespertilia dalla sua tomba per ghermire Marcello in un ultimo abbraccio. Tra i vampiri degli inizi, questa giovane di epoca romana è la prima a fare la sua comparsa, prima delle consorti di Dracula di Stoker, prima della più famosa e presente Carmilla di Sheridan Le Fanu, di cui può essere considerata una sorta di ava. Sia Polidori, sia Anne Crawford, trattano i loro vampiri con i guanti di velluto: non ne parlano volentieri, lo fanno a mezza voce, lasciandosi scappare dettagli neri e inquietanti, guardandosi le spalle per paura di essere osservati da questa creatura non morta e terrificante. Polidori urla quella parola per finire il suo romanzo, come se non si potesse dire altro, e Crawford la urla come un insulto, quando interverrà l’amico inglese di Marcello, e agirà come un Van Helsing molto giovane. A differenza di Stoker, che ne parlerà con competenza tramite la rievocazione triste del cacciatore di vampiri per eccellenza, e degli autori odierni, come Stephen King e Anne Rice, che considereranno queste creature come un’altra manifestazione del Male su questa terra, poco conosciuta ma rientrante nell’ordine della realtà umana.



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