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di Antonio Morabito, 2013
Risultato un po’ in sordina nelle sale, nonostante la discreta visibilità e pubblicità date da tematiche che di solito funzionano (corruzione, suicidio, aborto) e attori per eccezione (Travaglio) o eccezionalmente noti (Santamaria e Ferrari), del film di Morabito Il venditore di medicine se ne è parlato poco e male, ed è un peccato.
Un errore comune nel girare un “film di denuncia” è cercare la denuncia a tutti i costi, perdendo il controllo degli altri elementi. Non dissimile è lo “spettatore civile” che in certo cinema cerca motivi e temi su cui discutere e cineforumizzare, non curandosi tanto dei dettagli. Il venditore di medicine ignora entrambi, usa la denuncia ma attorno ad essa costruisce un vortice, una gabbia, l’atmosfera soffocante di una buia corsia d’ospedale.
La prima scena si apre con una lenta carrellata all’indietro alla scoperta dello spazio in cui il suono della voce della Ferrari risuona violenta e tagliente. Ecco il tavolo, siamo in una riunione di rappresentanti di una casa farmaceutica, ecco i dipendenti a capo chino. Ogni parola è come una frusta. La capo-sezione sta rimproverando uno tra i dipendenti che non ha venduto abbastanza, lo minaccia rabbiosa. Il dipendente, stremato, si ucciderà entro la giornata. E scopriamo che non è il primo. Su questa estenuante tensione si reggerà il resto del film.
La macchina non sarà mai ferma, non riposerà in nessuna scena. Rifiuterà spesso il campo-controcampo a favore dello spostamento a mano e dell’insistente permanenza sui personaggi, su tutti Bruno, interpretato da Santamaria che forse mai aveva avuto l’occasione di mostrare tutta la sua forza espressiva come in questo ruolo. È il silenzio a predominare, gli scenari vuoti, le stanze impersonali. Tutto è privato di un tocco umano, di ogni minima bontà, prevale infatti il grigio, i colori freddi del cinismo.
Molti hanno criticato come esagerata o inspiegata la vicenda tra Bruno, sua moglie e la sua inaspettata gravidanza. Ma Bruno non è pronto ad essere padre, sopraffatto com’è dall’ansia di ottenere risultati, dalla precarietà del suo lavoro: a questa insostenibile pressione non può aggiungersi la responsabilità, l’importanza di essere padri. Bruno se ne rende conto ma sa che non condividere la felicità di sua moglie vorrebbe dire ferirla e non poco. Giunge così al disperato gesto di contaminarle il cibo con un farmaco per abortire. Bruno non si rende forse conto della gravità della cosa, ma proprio non può deluderla e neppure rallentare il suo ritmo lavorativo. Folle ma coerente. È stretto in una implacabile e tragica morsa, verso cui, quando sua moglie rischierà la vita in ospedale scoprendo il suo trucco, non riuscirà più ad opporsi.
Al centro del film c’è quindi, più che la denuncia del sistema farmaceutico, la personalità di Bruno che se inizialmente è tanto forte da sostenere lui stesso i suoi colleghi, lentamente si incrina, diventa fragile, instabile, al limite del folle. A dimostrazione di ciò è il fatto che Bruno potrebbe anche fare un altro lavoro, il film non ne perderebbe, mentre al contrario il film senza Bruno non avrebbe né senso, né forza.
Lo spettatore de Il venditore di medicine è portato al disprezzo: disprezza Bruno, così come disprezza anche tutto ciò che gli è intorno. Gli unici soggetti con cui potrebbe “simpatizzare” sono sua moglie Anna o l’amico malato di Bruno, vittime incoscienti di tale sistema, ma gli elementi a loro favore non sono sufficienti, sono abbozzati, ricadono nella categoria comune della vittima, troppo da non assumere una reale indipendenza e autonomia, sono ruoli più che personaggi. E per questo le loro storie lasciano piuttosto indifferenti (nel disperato gesto di Bruno noi siamo interessati alle sue reazioni, non a quelle di Anna).
Proviamo distanza, e contemporaneamente oppressione. A ciò contribuisce magistralmente Morabito, lavorando molto sul suono, sulla profondità di campo, sugli spazi chiusi e limitati. Assistiamo infatti ad una costante dialettica tra ciò che possiamo e ciò che non possiamo vedere, ciò che è in campo e ciò che ne è fuori. Le porte chiuse ma in vetro opaco, le voci che vorremmo sentire ma risultano indistinte, sono elementi preziosi, metafore delle tante barriere che il film pone tra uomo e uomo, tra uomo e mondo. L’impossibilità di vedere è l’impossibilità di reagire.
L’ultima scena è tra le più belle, Bruno è senza via di uscita, la sua vita è al collasso. Siamo in un corridoio lungo e buio dal soffitto basso, il volto di Santamaria è isolatissimo nella messa a fuoco, così come lo è il suo personaggio. Ma c’è una via d’uscita, delle scale in cima alle quali brilla la luce dell’aria aperta, forse riuscirà ad uscire, forse no. Questo non ci è mostrato, eppure la via di fuga c’è: scale che salgono.
Personalmente a me hanno ricordato le scale che scendono verso il degrado morale nel Downhill di Hitchcock, lì il personaggio, persa ogni cosa, scendeva, qui Bruno, persa ogni cosa, potrebbe risalire.
Avrà pure dei difetti, ma i pregi sono molti di più.
(E che anche le pillole somministrate lentamente fossero reminiscenti dell’Hitchcock di Suspicion?)