Giuseppe Casarrubea
Ne scelgo solo su uno consapevole che molti altri meritano altrettanta, se non maggiore, riflessione. Ad esempio, compagnia, congregazione, ordine e via dicendo. Oggi mi interessa di più la confraternita. Perchè attrice principale e insostituibile in un tempo che chiamiamo di passione e, siamo certi, di resurrezione.
Confraternitas, dice lo Zingarelli, è un nome che deriva da confrater, ‘confrate’, risalente al XIV secolo. “Un’associazione di laici non governata da una regola e riconosciuta dall’autorità ecclesiastica che ha per fine l’elevazione spirituale degli iscritti mediante pratiche di pietà, di carità e di culto”. Nell’islam, precisa il vocabolario, “questi raggruppamenti erano a base gerarchica e avevano un proprio ordinamento amministrativo, di musulmani maschi che si riuniscono periodicamente per pratiche culturali o mistiche”.
Possiamo, dunque, dire che ci troviamo di fronte ad antiche organizzazioni presenti in Sicilia dalla notte dei tempi. Se ne contavano parecchie già nel medioevo e molte altre nei secoli successivi, fino a tempi a noi più vicini. Caddero poi in disgrazia. L’avvento dello Stato laico e innumerevoli altre ragioni, che non è il caso qui di spiegare, ne provocarono la crisi. Ma non sempre è stato così. E, anzi, come nel caso di Enna, vero e proprio ombelico di tutta la Sicilia, alla tradizione ottocentesca e risorgimentale e allo sviluppo delle idee mazziniane e socialiste, le confraternite hanno resistito con un allargamento della loro base sociale, penetrando in ogni quartiere, in ogni strada.
A Enna si contano ben sedici confraternite, di cui l’ultima (di Sant’Anna) è sorta nel 2011. Quella del Santissimo Sacramento ha origini aristocratiche, altre rappresentano i contadini e gli artigiani, i mugnai e i minatori. Questi ultimi organizzati nella confraternita del Sacro cuore di Gesù, hanno la loro sede nella chiesa di Santa Maria del Popolo.
Da un punto di vista organizzativo queste comunità eleggevano un capo che prendeva il nome di rettore. Un’autorità che veva un potere sociale e politico notevole, tanto che nei giorni della festa del santo patrono poteva concedere la grazia a tre condannati a morte. Inoltre coordinava le adunanze dei suoi confratelli e reggeva i bilanci della sua istituzione, frutto di donazioni, elemosine e lasciti da parte di famiglie facoltose o addirittura nobiliari.
La struttura gerarchizzata delle confraternite ennesi si completò nel 1714, quando il viceré Maffei istituì il collegio dei Rettori. Questo riunì in sé poteri economici e religiosi, inventando una figura molto vicina a quella del signore feudale o di un piccolo doge.
Enna è anche la città di Napoleone Colajanni e di Nino Savarese. Il primo noto per essere stato garibaldino e poi autore di libri come Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause (1894) e La delinquenza in Sicilia e le sue cause. Ma soprattutto per avere avviato i primi studi critici sulla mafia con il suo famoso libro inchiesta Nel Regno della Mafia (1900). Il secondo per avere conquistato la ribalta nazionale con romanzi quali Storia di un brigante (1931) e Rossomanno (1935). Tra i suoi innumerevoli scritti di carattere letterario a lui dobbiamo anche una Cronachetta siciliana dell’estate 1943 che ci dà un resoconto diaristico dello sbarco angloamericano in Sicilia. Del resto a lui è intestato un premio letterario, che il mondo dei letterati ha voluto istituire. Viene allora da chiedersi: se Enna è sempre stata una città culturalmente laica e aperta, come mai è ora totalmente trasformata in città religiosa e, si direbbe, anche clericale?
Qual è stata la forza dei confrates? Erano tutti riconosciuti dalla Chiesa cattolica? Non sappiamo esattamente, ma è certo che alcune confraternite, meno trasparenti, avevano statuti occulti simili alle organizzazioni dei Beati Paoli. Il loro modo di essere comune si poteva riassumere in sole due parole: cum fratres, essere o trovarsi sempre tra fratelli. La fratellanza era perciò il loro tessuto connettivo a prescindere dall’appartenenza. Potevano esserci, cioè, organizzazioni diverse, ma dovevano, tra di loro, riconoscersi.
Dunque, i confratelli costituivano un sodalizio di laici sotto il potere ecclesiastico. Si riconoscevano nella loro comunità e si davano un capo: il rettore. Al loro interno tutto era trasparente e visibile: dai singoli soci agli scopi statutari, dal capo ai superiori ecclesiastici della parrocchia o della Chiesa dalla quale dipendevano. L’appartenenza avveniva per condizione sociale, o per corporazione di arti e mestieri. Le confraternite riflettevano, così, le categorie di lavoro e regolavano gerarchicamente la società. Ma se esse si riconoscevano all’interno, erano con il volto coperto all’estermo, come ancora oggi è dimostrato dai cappucci che tutti i confratelli indossano durante la cerimonia pubblica del Venerdì santo. Fatta eccezione per i portatori del Cristo morto e dell’Addolorata.
Erano, e sono, corpi inconsapevolmente maschilisti, se è vero che era, ed è ancora, raro trovarvi, l’elemento femminile, accomunati tutti dallo stare assieme per i più svariati scopi. Ad esempio, nel ’500 a Partinico, il paese dove sono nato, c’erano le confraternite dell’Opera santa, di Maria SS. degli Agonizzanti, e quelle di San Giuseppe e di Gesù e Maria. Ognuna aveva scopi benefici di ordine cristiano. Nel caso delle prime due si trattava della delicata opera di dare degna sepoltura ai morti vista la ricorrenza delle epidemie di peste e colera che solevano devastare finanze e famiglie in tempi di ricorrenti crisi. Nel caso delle altre si aiutavano alla meglio i poveri, o le povere ragazze senza famiglia, istituendo per loro, donazioni ed obblighi a favore di appositi istituti che talvolta la carità di qualche aristocratico o latifondista riusciva a realizzare, magari per colmare qualche rimorso di coscienza. O semplicemente per la generosità del suo animo.
Un mondo tutt’altro che defunto, e che oggi appare assai vivo specie nelle comunità chiuse, dove l’isolamento e il diffuso senso religioso della gente dànno nuova linfa alle antiche devozioni e alla secolare storia del cattolicesimo. Questo mondo di incensi e di preghiere, di litanie e di rituali ha tuttavia una sua specificità, ben differenziata dalla sfera del potere politico-istituzionale. E a rendersene conto basta recarsi in una città come Enna, durante la settimana santa.
Enna sorge nel cuore della Sicilia feudale, su un altopiano di oltre mille metri di altezza, ricca di antichi edifici e di storia millenaria. Trae il suo nome da Euno, il famoso schiavo che, nel secondo secolo avanti Cristo, si ribellò alla dominazione romana e agli aristocratici che controllavano il pagamento dei tributi. Finì i suoi giorni nelle carceri di Morgantina. E’ cresciuta su una posizione strategica all’incrocio tra le ville dei patrizi romani di Piazza Armerina e i baroni delle miniere di zolfo, dove lavoravano per un pezzo di pane i carusi.
Qui non siamo a Catania ma in una realtà meno popolaresca e più organizzata, il cui nervo principale è sì la tradizione del mondo del lavoro, egemonizzata dalla gerarchica ecclesiastica, ma è la subalternità irredimibile, il profondo cuore oscuro della Sicilia, il luogo da dove parte il grido di dolore dei servi della gleba, dei primi morti sul lavoro, dello strazio delle famiglie. Su questo mondo, però, si innesta qualcosa di specifico che ne segna l’appartenenza. Una sorta di sigillo identitario.
Nel giorno di Sant’Agata Catania impazzisce. Chi arriva da fuori si trova subito immerso nei costumi della tradizione che si ripetono monotoni e normali, come se non stesse accadendo nulla. La settimana santa a Enna, invece, è il trionfo delle confraternite e dei loro caratteri. Lo scopri lentamente, a mano a mano che le scene ti si snodano davanti, fotogramma dopo fotogramma, finché ti trovi ad essere spettatore di un film, di un’azione lunga tutta la settimana santa. Non c’è finzione, come non può mai esserci artificio in nessuna tradizione religiosa in Sicilia. La scena è la vita stessa. E’ la storia.
All’inizio non la distingui. Poi noti i costumi, l’abbigliamento delle persone, i differenti colori. Gli scapolari variopinti. Sono i confratelli. Sbucano all’improvviso da tutte le strade, vi scorrono dentro come fiumi. S’addensano prima nelle innumerevoli chiese, e dopo nella chiesa Madre, tra piazza Mazzini e piazza Duomo.
La morte è il punto più alto della rivisitazione continua dell’esistenza da parte dei siciliani. Certamente interessa loro molto più della Pasqua che, anche sotto il profilo delle scene e delle rappresentazioni, è meno affollata e meno carica di pathos. Se la Pasqua è scontata, la morte è un enigma. Interroga ed è interrogata. In essa si sublima l’idea della vita degli ennesi e dei siciliani. Si umanizza il divino, si fa tragedia, quotidianità, sofferenza del giorno dopo giorno. In questa straordinaria identificazione con il Figlio morto e con la Madre che trafitta lo segue addolorata, la partecipazione collettiva degli attori è totale. Sia che partecipino da spettatori sia che si trovino protaginisti sul palcoscenico materiale della città. Una dimensione teatrale unica, perchè unico è questo altopiano che lo ospita.
Un miscuglio di riflessioni, stimoli e dubbi che si snodano, a mano a mano che le confraternite si recano in costume tradizionale alla chiesa Madre, per accompagnare o portare in spalla l’urna del Cristo morto o la statua dell’Addolorata che, a pochi passi, la segue.
Una scena che nasce nelle viscere delle confraternite, che si snoda come in un preludio lungo le vie della cittadina e si ricompone nella chiesa Madre, quando la banda musicale situata nell’attigua piazza Mazzini, comincia a intonare alcune sinfonie funebri di Haydn, Beethoven, Vivaldi. Qualche minuto dopo la processione comincia a sfilare, con il sole ancora alto che rende la piazza del Duomo, un tappeto di colori.
Nessuno in questo momento sa cosa stia succedendo, e da dove prenderà corpo il corteo singolare di confrati incappucciati che a migliaia cominceranno a sfilare lungo la via Roma e fino al cimitero della città.
C’è un gruppo di donne ben vestite in un angolo della piazza Mazzini. Ma nessuno le nota. Saranno le pie donne? Sono una ventina. Al termine delle prime battute della banda musicale tutte s’affrettano verso una viuzza invisibile, retrostante la piazza. Porta all’antica chiesa del San Salvatore che ospita la confraternita Collegio, nata nel lontano 1216. Improvvisamente si accalca una folla notevole e la viuzza non è più percorribile. Poi si alza un coro femminile. Intona Ah! Sì, versate lacrime che parla di un’antica e profonda tristezza e bene descrive quel senso della morte tanto avvertito dall’animo dei siciliani. Ed è proprio da qui, da una viuzza stretta e popolare che si avvia un imponente e interminabile corteo che accompagna il Cristo morto.
Dovunque, in Sicilia, le processioni del Venerdì santo sono cariche di pathos. Ma in nessuna città dell’isola questo sentimento è così elaborato e profondamente vissuto, come a Enna. E niente lo rende così vivo come gli incappucciati anonimi che sfilano e quel leggero dondolarsi che i portatori del Cristo e dell’Addolorata hanno durante il loro incedere mesti e, questa volta, a viso scoperto, per le vie di questo capoluogo d’Italia.
Ma l’Italia, come l’Europa sono lontane. E per una volta questo distacco segna una virtù, il carattere esclusivo della Sicilia e dei siciliani. Cioè essere irriconoscibili per il mondo, ma identificabili al loro interno, appartenenti a una comunità, ad un gruppo, ad una organizzazione di benefattori, agli antipodi della cultura criminale. Essi hanno un’altra lingua, una parrocchia e a una cultura vera: quella del popolo. Si richiamano a una fede comune. E mantenere una condizione di anonimato e di meditazione rispetto ai grandi misteri della vita e della morte, cui anche il cielo talvolta concorre, come accade in questo altopiano, con la nebbia inesorabile che cala sulle chiese e sui volti impenetrabili degli uomini, avvolgendoli in una sorta di rarefazione, di dimensione surreale.