Il sindaco di Napoli si trova a “scassare” e vuole “scassare” tutto. Ha rilasciato un’intervista al Corriere del Mezzogiorno in cui ha detto che dell’arte contemporanea gliene frega poco o niente e ha annunciato che a maggio 2012 aprirà a San Domenico Maggiore il museo dell’arte e della tradizione popolare. Ne è scaturito un dibattito che, forse, può essere istruttivo anche per Benevento e dintorni. Dunque, da una parte c’è “il partito di Cicelyn” ossia gli elitisti dell’arte contemporanea e dall’altra “il partito di de Magistris” ossia i populisti dell’arte tradizionale. Le due parti sono irriducibili l’una all’altra. Ma solo in apparenza. Nel mezzo c’è un’idea comune: il museo. L’arte contemporanea passa attraverso questo “spazio espositivo” che è un’invenzione della modernità. Per imporre i suoi stili e i suoi artisti, il partito elitista ha bisogno di gallerie, incontri, vernissage. Senza il Madre non c’è arte contemporanea. E’ apparentemente strano, ma è un fatto che nasca prima il museo e poi l’arte.
Luigi de Magistris si contrappone al partito elitista di Cicelyn ma è sulla stessa strada museale. Nell’annunciare la “rivoluzione culturale”, il neosindaco ha proposto ben tre idee museali: il museo dell’arte e della tradizione popolare, un museo della musica e anche un museo del diritto a Castelcapuano. Cambia il partito, ma l’idea che l’arte vada proposta o addirittura imposta con il museo è la stessa. Se tutto venisse realizzato, Napoli diventerebbe la città dei musei. Ai tre del sindaco ci sono da aggiungere il Madre, appunto, quindi lo spazio del Pan, poi l’introvabile museo dedicato a Totò, il (chiuso) museo Filangieri, naturalmente Capodimonte e si può continuare a lungo. Insomma, elitisti e populisti saranno pur “l’uno contro l’altro armati” ma sono accomunati dalla convinzione che arte significhi museo.
Un grande napoletano (era cittadino onorario) come Hans-Georg Gadamer ha dedicato attenzione ai rapporti tra museo, arte, vita. Il museo non rappresenta la vita ma la morte dell’arte. Il museo è il frutto della “coscienza estetica” moderna che vede nell’arte solo un gioco di belle apparenze dal momento che il regno della verità è (sarebbe) della scienza. L’arte non avendo niente da dire sul piano della verità viene tolta dal suo contesto vitale originario per assumere un puro valore estetico. L’artista diventa un “tipo”: non è, infatti, uno scienziato ma un bohémien che non ha un ruolo ben definito. Sia nel “partito di Cicelyn” sia nel “partito di de Magistris” opera questo pre-giudizio sull’arte. Così l’arte che ha qualcosa da dirci sulla vita, sul mondo, su noi stessi diventa solo un oggetto fruibile. Per esporre cosa? Squali imbalsamati (al Madre) e sciarpe di Maradona e San Gennaro (al museo della tradizione proposto da Roberto De Simone). Di questa concezione dell’arte, nella città di Benedetto Croce, francamente non ce ne facciamo niente sia che siamo elitisti sia che siamo populisti.
I due partiti fanno a gara a ideare musei che si portano dietro una falsa “coscienza estetica”, mentre l’unico grande vero museo napoletano che ci dice davvero qualcosa è lo spontaneo museo della munnezza. Le ecoballe sono state definite “le nuove piramidi della Campania” e sia nella loro forma geometrica sia nel loro contenuto immondo rappresentano “un museo iperealistico”. Gli otto milioni di tonnellate di spazzatura delle ecoballe sono il più grande monumento che ha pensato e costruito la città di Napoli negli ultimi cinquant’anni. Un museo che mette d’accordo gli innovatori dell’arte contemporanea e gli affezionati dell’arte tradizionale, gli elitisti e i populisti. L’arte della munnezza ha qualcosa da dire a tutti ma tutti fanno finta di non sentire.