Se mi guardo indietro vedo che da poche altre cose la mia vita è stata segnata così in profondità come dall’amore per il viaggio.
Mi è sempre stato abbastanza chiaro che viaggiare è un’attività ben più complessa e coinvolgente di uno spostamento fisico. Ma fin da piccolo, soprattutto, ho sentito crescere dentro di me l’idea dell’altrove, qualunque cosa questo altrove significhi: un’altra vita costruita in remote latitudini oppure un estremo limite geografico.
Il babbo e la mamma, mi ricordo, da nullatenenti che erano si erano inventati un lavoro che oggi pare uscire da un libro di fiabe: vendevano giocattoli nelle fiere e nei mercati.
Erano di Cortona, la cittadina murata, dalle chiare origini etrusche, che sovrasta la valle della Chiana, in provincia di Arezzo, ma giravano tutta la Toscana, per le gioie e le bizze di chissà quanti bambini.
Per il mio settimo compleanno ritornarono a casa portandomi uno di quei mappamondi con le montagne in rilievo e la luce dentro. Una meraviglia: non doveva nemmeno essere stato facile procurarselo. Si sa, la memoria ingigantisce ogni cosa. A me sembrava che il mio mappamondo fosse grande da non poterlo nemmeno abbracciare.
Passavo ore e ore in sua compagnia, alla ricerca di valli incantate e di isole dei pirati. Scrutavo l’azzurro degli oceani, studiavo i confini di stati di cui ignoravo tutto, percorrevo con il dito i profili delle catene di montagne, indugiavo su capitali di cui ripetevo il nome ascoltando l’eco di avventure possibili.
Col pensiero volavo verso città remote, che comunque non riuscivo a concepire senza i mari, i monti, i deserti che le accerchiavano.
Però a emozionarmi e a scatenarmi le fantasie erano soprattutto le terre estreme: meglio, che consideravo estreme dal mio punto di vista, quello di un ragazzino che non si era mai allontanato dalla sua Toscana, ma che quando faceva il presepio poteva convincersi alla svelta che le mura della sua Cortona fossero in realtà quelle di Gerusalemme.
E per il mio mondo di bambino erano essenzialmente due le terre estreme. Corrispondevano ad altrettanti confini invisibili, che separavano la mia vita di ogni giorno e i miei sogni di avventura: erano i monti dell’Himalaya e, appunto, la Terra del Fuoco con l’Antartide.
Più tardi, poi, ad alimentare la mia fame di mondi lontani sono arrivate le letture. Non mi ricordo chi abbia scritto che non esiste un vascello veloce come un libro per portarci in terre lontane. Però quanti libri mi hanno aiutato a sognare.
Libri divorati da adolescente, ma che avrei riletto con enorme piacere anche da adulto. Libri su uomini sempre alla ricerca di qualcuno o qualcosa, all’inseguimento di un sogno o di un tesoro, di una persona amata oppure anche di una balena divenuta ragione di vita. E uomini in perenne, inquieto movimento attraverso giungle folte di minacce o attraverso oceani gelidi e tem- pestosi. In fondo anch’io ho provato a cercare per tutti i mari della mia esistenza l’inafferrabile balena bianca; anch’io ho indagato le mappe per scovare la mia isola del tesoro; anch’io ho issato le vele del mio vascello per oltrepassare quella sottile linea d’ombra, che non è solo il titolo di un libro indispensabile, è anche una stagione cruciale della vita.
E oggi che quel bambino di Cortona è ormai un ricordo lontano, oggi viaggio davvero, non più su un mappamondo con le ali della fantasia.
Viaggio per riannodare i fili di un discorso che non si è mai interrotto e che forse ha bisogno solo di essere completato, sempre che questo sia mai possibile.
Però le mie mete, per lo meno le mete che contano sul serio, affondano sempre nei sogni e nelle emozioni di quel bambino.
Così credo di aver capito che il viaggio, quando è vero, ti consente, tra le altre cose, di ritornare a quello che eri in tempi lontani, senza più pregiudizi, barriere, filtri della memoria più o meno interessati e consapevoli.
Per me è davvero importante: non voglio più smarrire i paesaggi interiori della mia infanzia.
Da lì sono partito, lì voglio tornare.
(Tito Barbini da "Antartide" Edizioni Polistampa)
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