Attorno al viaggio in solitaria si raccolgono diverse paure e tabù, in gran parte dovuti al nostro essere italiani, in quanto per molte persone di altra nazionalità non solo è cosa frequente, ma addirittura incoraggiata. E sintomatico che tra tutte le persone informate della mia partenza, circa un ventina, solo 3 abbiano risposto in maniera entusiasta all’idea, producendo termini quali “libertà”, “esperienza”, “avventura”, “conoscenza”. Li ho apprezzati.
La cosa che più mi è piaciuta del mio viaggio è che, non avendo compagnia viaggiante, cambia completamente la percezione dell’esperienza di libertà. Lo pensi da solo, ti organizzi da solo, te lo mediti da solo, e parti da solo. Come una gallina che cova il proprio uovo. Poi, ovviamente, sta completamente a te decidere cosa vuoi farne del tuo viaggio: puoi decidere il grado di apertura all’esterno, lo stile di viaggio più adatto ai vari momenti, i livello di rischio, di sfacciataggine, di sopportazione da adottare. In pochi istanti, ogni giorno, ti costruisci innumerevoli vincoli e possibilità a seconda di quale interiorità esternalizzi. E’ un momento molto bello per sperimentare i nostri stili relazionali, creando un piccolo laboratorio di improvvisazione, concedendoci libertà che nell’ambiente domestico e quotidiano si manifestano magari con più difficoltà. Si imparano molte cose su di sé e sugli altri-da-sé.
Senti perfettamente che ci sono cose che se non le farai tu, non le farà nessun altro. Improvvisamente, ti accorgi della tua irriducibile singolarità. E’ tutto a disposizione: altre persone, dialoghi interessanti, domande e risposte, aiuti e collaborazioni, un mondo. Solo che tu voglia uscire da te e metterti in contatto, aprire uno spazio di relazione. Sta a te decidere il grado di permeabilità.
A momenti si percepisce anche la propria assoluta vulnerabilità. Paese sconosciuto, logiche da svelare, lingua da articolare faticosamente, volti da decifrare, possibilità da sondare, emozioni e percezioni da assecondare o trasformare, soppesando rischi e opportunità. L’inferno sono gli altri, diceva Sartre. Probabilmente è vero quando hai troppa gente che ti fa rumore attorno, e che ti cristallizza in schemi troppo rigidi. Viaggiando da solo puoi facilmente ri-scoprire il valore irriducibile dell’altro-da-te sforzandoti di aprirti a nuovi significati.
Da solo la consapevolezza di essere-nel-mondo si amplia e solidifica. Dopo i primi giorni di adattamento e il normale abbassamento delle difese, non sei forzato a sostenere la logica duale o multipla tipica del viaggiare in compagnia, dove si rischia di creare un micromondo tra viaggianti e di osservare la realtà come da dentro un guscio. Il primo passo, l’uscita di casa, lo si compie da soli. Ed è un primo passo che, a mio parere, può avere una valenza simbolica profonda. E’ l’imprinting che ci accompagnerà per tutta la durata del viaggio, il DNA inconfondibile, che resterà tale anche se incontreremo altri compagni di viaggio con i quali condividerlo in tutto o in parte.
Iniziare un viaggio da soli fa venire subito a galla i propri limiti. Dove non arriviamo noi, infatti, non arriva nessuno. Le idee non sono stati condivise, analizzate e socializzate con uno o più compagni di viaggio. Ogni dimenticanza pesa, non c’è il compagno che compensa. Bisogna aprirsi all’esterno e chiedere aiuto a persone prima sconosciute. Se è vero che l’unione fa la forza, il viaggiare da soli fa sentire a volte un retrogusto di debolezza, che spinge a riflettere sulla nostra natura di animali sociali. Precarietà compensata da straordinarie soddisfazioni qualora si riesca, con un po’ di logica, intuito e fortuna, a sbloccare situazioni contorte, momenti critici e a far funzionare i piani B, C e D con l’improvvisazione e con la collaborazione di persone mai viste prima ma dotate di grande umanità. Questa cosa mi piace perché mi aiuta a ricalibrare il rapporto tra individuo e società.
Aprendosi all’esterno si scopre poi la propria zona di sviluppo prossimale, la propria capacità di bene-stare al di fuori della zona di confort, la propria flessibilità e le proprie inevitabili rigidità. Una piccola terapia on the road insomma, un Sé in trasformazione in tempo reale, magari a 10.000 km da casa invece che nello studio di un terapeuta, con le persone del posto a guardarti con occhio sapiente e vigile, bonario ma scrutatore, facendoti sentire alternativamente un insetto davanti ad un entomologo oppure il partecipante ad un precario esperimento culturale di un antropologo.
Entusiasmo e goffaggine, grinta e vulnerabilità, ottimismo e disillusione si intrecciano in una marmellata di emozioni che ha i mille gusti delle decine di frutti esotici brasiliani. Alla fine, era proprio il motivo per cui, forse, si è deciso di partire!
Per chi fosse interessato alla prospettiva del viaggio come terapia consiglio questo libro.
Per un bel blog sul viaggio da soli qui.