Continua la saga delle cronache del viaggio pazzo della sottoscritta e Hamed. Dov’eravamo rimasti? Ah, sì: che eravamo nel Laos.
Il tempo di saldare il conto al nostro hotel, ed eccoci sfrecciare sul taxi (Hamed ha rinunciato al tuk tuk solo perchè avevamo troppa fretta – non illudiamoci), direzione Aeroporto di Vientiane. L’aeroporto è piccolo e troviamo subito il bancone del check-in. Con voce preoccupata chiedo se possiamo acquistare due biglietti per Phnom Penh: “Ma certo!”, mi risponde l’addetto della compagnia aerea Vietnam Airlines, chiedendoci i passaporti, mentre sento allentarsi la tensione. “Oman? Wait”. Oh no, ci risiamo! Mi appoggio sconsolata alla spalla di Hamed: non sia mai che abbia un tracrollo proprio a un passo dalla meta.
Come già alla frontiera tra Thailandia e Laos, così qua: Oman? Mai sentito nominare. E così il nostro comincia una ricerca – con estrema calma e tranquillità, tanto mancano solo venti minuti all’imbarco – per scoprire se i cittadini omaniti debbano essere in possesso di un visto emesso prima di entrare in territorio cambogiano.
Cerca sul computer.
Effettua una chiamata.
Sparisce nei meandri dell’aeroporto.
Ricompare.
Effettua un’altra chiamata.
Scompare del tutto.
Passano cinque minuti.
Nessuno compare all’orizzonte.
Altri cinque minuti.
Niente.
Poi lo vediamo ricomparire, minuto, al bancone del check-in: “Tutto Ok! Può entrare e chiedere il visto in aeroporto”. Come se non lo sapessimo già!
Prima di emettere i biglietti, però, ci chiede se abbiamo abbastanza contanti per poterci mantenere in Cambogia. Apro il mio portafogli: 50 euro. Storce il naso (come dargli torto?). Per fortuna, Hamed non è un amante delle carte di credito (nel portafogli ne ha tre: non una che funzioni), così dopo due minuti i biglietti sono nostri. Yeah! E adesso affrettiamoci: non vorrei che dopo tanto attendere, lorsignori ci lasciassero pure a piedi.
L’Hamed si fionda subito nella sala fumatori – una boccata d’aria fresca ci vuole prima di prendere il volo, no? -, mentre io mi seggo a bere qualcosa al bar.
Di lì a pochi minuti stanno già chiamando per l’imbarco:
Saliamo, ci accomodiamo sui nostri sedili, e dopo un’ora di volo ecco ciò che appare sotto di noi:
Il Mekong: ogni volta che si atterra in Cambogia, ecco che appare immenso, marrone, quieto.
Nasce dagli altopiani tibetani e scorre toccando Cina, Myanmar, Laos, Thailandia e Cambogia. Quando giunge a Phnom Penh, il Mekong si biforca nel Mekong Inferiore e nel Bassac, che varcano la frontiera con il Vietnam, dove si trasformano in un delta sconfinato di oltre 22.000 chilometri quadrati. Qui il grande fiume ci abbandona, sfociando nel Mare Cinese Meridionale.
La Cambogia si dice essere un dono del Mekong: modellata dalle sue acque, è una creatura del fiume.
All’Aeroporto di Phnom Penh nessuno fa gli occhi a punto interrogativo alla parola Oman, i passaporti ci vengono timbrati in una piccola catena di montaggio cui consegnamo una fototessera, un modulo già compilato sull’aereo e 20 dollari a testa per il visto turistico. Quest’ultimo è rinnovabile di un altro mese, poi bisogna uscire dal paese. Dal 1 ottobre 2014, però, il prezzo del visto turistico è stato aumentato a 30 dollari (Puoi leggere maggiori dettagli su visti, vaccini e raggiri alle frontiere QUI).
E ora… tuffiamoci nel traffico di Phnom Penh: ah, la mia Cambogia! Finalmente! Gas di scarico, tuk tuk, motorini che arrivano da destra, motorini che arrivano da sinistra, motorini che ti arrivano dritti addosso, ragazze in pigiama, odore di immondizia, ragazzi con la mascherina sulla bocca, cavi elettrici, noci di cocco, durian, e gli immancabili venditori di ghiaccio: sì, ora sono proprio a casa.
Il tuk tuk ci porta lento a Villa Srey, il boutique hotel al numero 16 in Street 306 che ci è stato consigliato da Mary, la mia amica che vive a Phnom Penh e insegna inglese. L’hotel si trova nel quartiere Boeung Keng Kang 1, quindi centralissimo: da lì si può andare ovunque. Per 35 dollari ci sistemano in una camera bella e confortevole immersa nel verde. Affamati come lupi (non so chi di noi due mangi di più), molliamo gli ormeggi e ci fiondiamo a uno dei miei due ristoranti preferiti, il Comme à la Maison in Street 57, dove ordiniamo un lauto pranzo come non ne mangiavamo da giorni.
Poiché nessuno dei due parla francese, ci perdiamo nel menù tra gelée, brochettes e filet; escludo subito il Sauté de Porc, essendo Hamed musulmano: “Scusa, ma chi ti ha detto che non mangio il Porc?”. Bene: fuma come un turco, beve come una spugna e mangia anche il porc. Viva l’osservanza!
Lui è fatto così: non prega e non frequenta le moschee. Però ha una generosità senza uguali: se hai bisogno ti darebbe anche l’anima, e lascia sempre mance generose ai camerieri e soldi ai senzatetto.
La bontà e la generosità non hanno religione: sono solo una questione di cuore.Il pomeriggio trascorre tranquillo mentre passeggiamo verso l’Independence Monument in Sihanouk Boulevard, dove incrociamo i cambogiani che al tramonto corrono, fanno ginnastica o camminano in tuta (talvolta in pigiama) a passo spedito:
Camminando lungo il Sothearos Boulevard in direzione Royal Palace c’è il solito animatore che, ogni sera da anni, movimenta i cambogiani a ritmo di musica da discoteca: un’aerobica molto improvvisata ma d’effetto, tanto che tutti i passanti ne rimangono ipnotizzati.
Sulle rive del Mekong noto che ci guardano tutti, dai bambini (che girano letteralmente la testa al nostro passaggio) agli adulti: qui non è affatto usuale vedere un nero con una bianca. Anzi: non è affatto usuale vedere un nero alto e muscoloso girare con nonchalance per la capitale in canottiera. E fu così che il nostro, fiero del suo nuovo status da VIP, se ne esce con una delle sue perle: “E come mai non si girano a guardare quei vecchi bianchi accompagnati da giovani cambogiane in minigonna?”.
Mentre passiamo davanti al Foreign Correspondents Club sulla Sisowath Quay, per un attimo mi viene in mente Vesna, ovvero la mia prima (segretissima) avventura cambogiana, e mi scappa da ridere. Subito dopo, spero invece di non incontrare nessuno che mi conosca: non ho ancora detto alle suore della missione che sono arrivata. Voglio fare loro una sorpresa, e poi non voglio domande e interrogatori sul mio accompagnatore omanita. Detto, fatto: “TEACHER ELI!”. Mi giro: una mia ex alunna mi sta venendo incontro sorridente.
“Ma sei tornata? Devo dirlo a Suor Giovanna!”, mi dice, squadrando Hamed dalla testa ai piedi. Ti prego, no: tutto, ma Suor Giovanna no. Alle suore venete bisogna dire tutto, ma non che si frequenta un arabo. Potrebbe farmi dire una messa.
La mia ex alunna era una delle più brave in inglese, piena di talento e molto creativa. Viene dalla campagna, il papà aveva abbandonato lei e la mamma quando era piccola. La osservo: minuta nella sua minigonna stretta, tacchi alti e unghie rosse, non sembra più lei mentre attira i clienti nel ristorante per cui ora lavora. Mi viene una fitta al cuore. “Vediamoci una sera, Teacher!”.
Ormai è calata la notte mentre entriamo al Pop Cafè, l’altro mio ristorante preferito che si affaccia sul Mekong: cibo italiano dei più buoni, ricette della mamma del proprietario Giorgio, e il luogo dove Hamed scopre l’esistenza degli spaghetti alle vongole. Sarò condannata a tornarci tre volte, prendendo io stessa le sembianze di un mollusco.
- Aaah, finalmente un hotel degno di questo nome!, esclamo, sistemandomi il lenzuolo fresco sulle spalle. Domani voglio dormire almeno fino alle dieci!
– Fino alle dieci? Scherzi, baby? Domani mi porti in tuk tuk a vedere la campagna!
– Ma… non vuoi visitare Phnom Penh?
– Phnom Penh? Ma non l’abbiamo già visitata oggi?