L’ultimo libro di Fabia Ghenzovich è un lungo passaggio di vita in versi attraverso un solo e potentissimo simbolo, la lupa, animale totem della poeta veneziana. Una “lupa triade”, che respinge ed azzanna per difendersi dall’uomo cinico e persecutore. Una loba che quotidianamente fatica e lotta contro uno stato di solitudine affettiva quasi universale. Ed infine una dea lupa-luna che usa e canta la sua natura più potente, l’empatia. Il Totem del libro è una linea di versi la cui base è stretta e fulminea (fauci\tagliole pronte allo scatto \frecce\vertebre tese), la triade di una femminilità dalla pelle di lupa, della forza selvatica e dello sguardo netto, che non fa concessioni alla lettura del presente e usa il verso per un’indagine su di esso, modulandone ritmo e ricerca alla risposte che trova. Ecco perché nella prima parte la grammatica dei versi è dura e chirurgica e il ritmo è concentrato: la tana\mondo è circondata da carnefici e codardi indifferenti, l’accidia dell’uomo che imprigiona il prossimo suo nei lager del male. La poesia ha un’alta frequenza velare, è compattata “dalla razza che fu senza pari\gli eretti i primi violentatori\noi“.
Nella parte seconda la loba si ritira dentro le sue stanze. E si racconta e si svela, conquistandosi la fuoriuscita dal corpo animale in una pluralità simbolica femminile, che con dolore ha dovuto attraversare il tempo per conquistare la libertà ed il diritto all’ esistenza. Il verso qui comincia a sfaldare la compattezza precedente, il legame dei versi appartiene non solo ad un paesaggio esterno ma anche ad uno profondamente interiore: è la danza del sasso, il cuore come pietra solidificata che prova a sciogliersi, come la lupa, e a trasformarsi (scuote piano i capelli\più forte il richiamo confonde\sovverte si allaga e spalanca\la gioia inattesa che sale).
Dove si troverà pace? Nella normale umanità che non si arrende al disumano. Dalla cima del Totem si può guardare il cielo. Non tutto è perduto né si perde, anche nel dolore, “a margine della luce, altrimenti luce“.
L’ultima lupa è della triade la più indifesa: essa non può più nascondere (e nascondersi) il bisogno di dare e ricevere affetto,” la naturale alchimia del pane e rose“, la tenerezza che combatte l’oscurità. Il ritmo della versificazione nuovamente cambia: questo ultimo mondo è quello della prima persona plurale, del verso lungo e addolcito, finanche con innesti di prosa, per meglio legare gli uomini e le donne gli uni agli altri. Il verso conduce alla narrazione dell’armonia , il materno che accoglie le prove più dure delle proprie figlie e dei propri figli con una forza d’animo ancestrale. Ecco arrivare la Càtanegài che ritrova i corpi dei bimbi morti nei fiumi , la lupa sterile che parla con se stessa sulla panchina del parco, la dama di compagnia del vecchio Gastone che gli rimbocca ogni notte le coperte e gli parla “con voce ferma come si fa con un bambino \che l’ha combinata proprio grossa“. E’ il luogo del totem dove non c’è più terra da difendere, non si è più in una centrifuga ma in una casa comune dove “L’amore… comprende tutte le lingue” seppure a grande fatica. Il viaggio è stato svolto. Dal buio alla luce. Il totem della salvezza è una dea materna che (forse) perdona.
tre poesie da
TOTEM
di Fabia Ghenzovich
***
Non rimarrà impunito il gesto
di chi ti sottrasse anche solo uno dei tuoi cuccioli
con ferocia primitiva delle madri
all’estremo sacrificio ti riconosco
lupa mia antenata
sorella selvaggia a difesa della tana
***
Porta la luna per cappello
la laguna per mantello
tutto trasforma in niente
come appare però scompare
la funambola della notte
cammina capovolta
su filari di stelle
***
L’amore comprende tutte le lingue
nel niveo di una voce – io sono noi siamo
un canto più fondo della notte
spalancato sui nidi di pleiadi
segno ancora della luce
qui in terra gravida
mai uno spreco la sua benedizione