“Se per cortesia, per stanchezza, per amicizia, o per vanità mi mettessi a chiacchierare sul Mastorna e dicessi che ancora una volta è un viaggio, immaginato, sognato, un viaggio nella memoria, nel rimosso, in un labirinto che ha un’infinità di uscite, ma solo un ingresso e quindi, il vero problema non è uscire, ma entrare, e spudoratamente continuassi a snocciolare definizioni e proverbi, non credo riuscirei a suggerire il senso del film, che io per primo non so cos’è. E’ il sospetto di un film, l’ombra di un film, forse anche un film che non so fare”.
Vent’anni fa un malanno assolutamente ordinario ha concluso l’esistenza di un regista straordinario, uno di quei concretissimi visionari – perché il visionario, in fondo, è l’unico realista - capaci davvero di dar corpo ai sogni, ai fantasmi, alle intuizioni degli altri raccontando le proprie; uno di quelli che sapevano scendere abbastanza in profondità da risalire con una perla.
Vent’anni fa, moriva Federico Fellini. Vogliamo ricordarlo non attraverso i film che ha fatto, ma attraverso l’unico che non riuscì mai a girare e che nella seconda parte della sua vita resterà in lui come miraggio, simbolo, riserva energetica e forse come paradossale testamento.
Siamo nel 1965, in un prato alla periferia di Roma. Uno spazio soprannominato dagli addetti ai lavori “Dinocittà” – Dino De Laurentiis lo scelse per girare in esterna - e in questo luogo campeggiano due costruzioni bizzarre: una riproduzione in scala quasi naturale del duomo di Colonia; la carlinga di un aereo, sostenuta da impalcature.
È il set del film non girato più famoso della storia del cinema.
Mesi prima, Fellini aveva scritto al produttore napoletano una lettera piena d’entusiasmo. Non si trattava per lui di un buon periodo: a metà degli anni ’60 erano morti sia il padre che l’analista Ernst Bernarhd, punto di riferimento spirituale; il pubblico per giunta aveva accolto con freddezza l’ultima opera, “Giulietta degli spiriti”.
Fellini coltivava l’idea di un nuovo lavoro, un film sull’aldilà. Il titolo è già deciso: Il viaggio di G. Mastorna, dove “G” sta per Giuseppe, ma in tarde correzioni apparve anche il nome Guido, suo alter ego in Otto mezzo.
(Il protagonista è un violoncellista in viaggio dalla Germania all’ Italia. Durante una tempesta l’aereo atterra in una città misteriosa, dove si trova isolato dal resto del mondo; qui conosce personaggi ambigui e quando incontra alcuni conoscenti scomparsi scopre di essere morto in un incidente aereo. Mastorna proprio non capisce. Cerca di ribellarsi ad un aldilà che non corrisponde alle attese, così simile alla terra, così ordinario, così mediocre. Ci sono strani funzionari che continuano a fargli insistentemente una domanda a cui si sforza di rispondere, ma sembra che la risposta non vada mai bene. La domanda è: tu, chi sei? Fino a quando..)
All’inizio del 1965 le scenografie sono terminate. Manca il protagonista: un Fellini roso dall’indecisione convoca nell’ordine Mastroianni, Tognazzi, Paul Newman e Paolo Villaggio – che molti anni dopo presterà il volto a Mastorna nella trasposizione a fumetti di Milo Manara. Alla fine, tutto è pronto per le riprese. Tutto e tutti, tranne Fellini: nelle foto del set lo vediamo spaesato, bloccato; l’idea sembra essere evaporata e con essa la capacità di iniziare qualcosa di nuovo. Leggenda vuole che sia stato un cartomante di Torino, il mago Rol, con un biglietto infilato nella tasca della giacca, a convincerlo che quel film lo avrebbe realmente portato alla morte.
Il 14 settembre del ’66, Fellini scrive a De Laurentiis che non se la sente di girare Mastorna. Lui non la prende benissimo, dal momento che ha speso già un miliardo di tasca sua, e cita per danni il regista chiedendone il sequestro dei beni. Dopo varie vicende, lo salverà il produttore Alberto Grimaldi rilevando l’intero progetto, con coraggio e molta fiducia. Il film non si farà mai.
E mai sapremo i veri motivi per cui Mastorna restò un miraggio: superstizione, esaurimento, difficoltà tecniche, perfezionismo, un blocco creativo. Oggi possiamo leggere la sceneggiatura sfrondata dalle indicazioni di scena e (grazie anche all’aiuto di Dino Buzzati, che vi collaborò in prima stesura) molto simile a un romanzo. Fellini continuò per lungo tempo a parlare di Mastorna come di un progetto vivo, un’entità capace di operare nel proprio mondo interiore.
Se immaginiamo Marcello Mastroianni nei panni del violoncellista fedifrago, malinconico e ordinario, uno proprio simile a noi, questa somiglianza giustifica l’arbitrio di una supposizione.Nell’aldilà che non riesce a capire, in cui tutti gli chiedono chi sia, Mastorna ha all’improvviso un’intuizione. Anzi, è meno di un’intuizione, è un’immagine minima, l’ombra di un ricordo. Nella desolata e inconcludente teoria di incontri, Mastorna all’improvviso rammenta un episodio..
Era in auto, fermo al semaforo; un’altra auto si fermò accanto; al finestrino, un cane schiacciava il muso contro il vetro. Lui si girò, lo guardò e come un bambino gli fece una linguaccia, soddisfatto di sé. Mastorna pensò: “buffo, in quell’attimo ero davvero me stesso”.
La risposta viene accolta dai funzionari misteriosi, e qualcosa accade: il mondo attorno si sgrana, una dimensione invisibile agli altri diventa evidente – non oltre, ma in mezzo a loro, che continuano a ripetere incessantemente lo stesso copione recitato in vita.
Cosa vuol dire, rispetto all’impossibilità di girare il film? Forse nulla. Forse invece Mastorna non poteva essere compiuto perché Fellini oscuramente sentiva di trovarsi in un luogo decisivo dell’anima, troppo vicino al proprio centro; sentiva forse di raccontare la sua ultima parola, una parabola, una verità così semplice che è tutta in superficie. Una volta vista, si può solo cercare di viverla. Ma si può avere paura che in questa semplicità assoluta non resti niente da raccontare? Anche se non è vero, è curioso pensare che per lo stesso motivo il poeta Rilke rifiutò di andare in terapia da Freud. Un creativo ama le vie traverse, le strade che si diramano all’infinito, i labirinti. Fellini amava la magia della narrazione; non è ozioso credere che volesse restare nel purgatorio della vita irrisolta per continuare a raccontarla.
Mastorna era un film che non sapeva fare, e forse incarnava anche un cambiamento che non voleva essere.
Mastroianni, aristocratico uomo di mondo, lo capì al volo e dopo anni di tentennamenti suggerì sornione: “Federì, questo film lo faremo insieme nell’aldilà”. In fondo lo disse anche Agostino d’Ippona: “Signore, donami saggezza e castità: ma non subito”.
Marco Montanari
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