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Il villano

Creato il 04 ottobre 2011 da Senziaguarna
Il villano

Abbazia Di Notre-Dame du Ronceray, Angers - Campanile.

Se, nella città francese di Angers, s’impone il ricordo del duca d’Angiò, signore di quelle terre, con il bel castello che ci ha lasciato, non bisognerebbe più tralasciare di evocare, davanti al campanile romanico che è tutto quel che resta della parte antica dell’abbazia di Ronceray, il ricordo di Constant Leroux.
Chi è Constant Leroux?
Un servo della gleba, un semplice servo di Ronceray, l’uomo che occupava il gradino più basso della scala sociale del suo tempo: la seconda metà dell’XI secolo.
È molto raro trovare qualche traccia della storia di un servo di quell’epoca lontana, a meno che non si tratti di un servo che abbia raggiunto una fortuna eccezionale, come Sugerio, che, figlio di un servo, entrato nell’abbazia di Saint-Denis dove ebbe per compagno di scuola e grande amico il futuro re di Francia Luigi VI, divenne poi egli stesso abate di Saint-Denis e governò il regno durante la crociata di Luigi VII, il quale, al suo ritorno, lo proclamerà “Padre della patria”. Niente di tutto questo per Constant Leroux, che sarebbe caduto nell’oblio insieme a milioni di altri servi se un erudito degli anni ’50 del secolo scorso, Jacques Boussard, non avesse ricostruito la sua storia attraverso gli atti che lo riguardano all’interno del cartulario (registro in cui erano ricopiate, o per lo meno menzionate, le chartes, cioè documenti vari, donazioni, affitti, vendite, acquisti, lasciti, ecc., effettuati per conto di un monastero) dell’abbazia femminile di Ronceray, in cui una monaca si era d’altronde presa la briga, alla fine dell’XI secolo, di dedicare una nota al personaggio.
Constant Leroux si è visto affidare l’incarico di custode, per conto dell’abbazia, di una dispensa nella zona della chiesa di Saint-Evroult, oltre a una vigna lì vicino, nel quartiere di La Doutre. Dopo qualche tempo, le religiose gli rimettono, a titolo vitalizio, una casa con forno, e mezzo arpento (circa 18 metri quadrati) di vigne situate presso la porta di Chanzé, e che una certa Ermengarda, vedova, ha lasciato loro in eredità. A questo si aggiungeranno, un po’ più tardi, due terre coltivabili e dei pascoli situati a l’Espau e a Femart. Chiaramente, Constant Leroux non si tira indietro di fronte all’incarico.
Ma intende anche trarre profitto dal suo lavoro. Un bel giorno va a trovare le religiose: queste terre, lui le coltiva a mezzadria, deve cioè al monastero metà del raccolto; un po’ troppo poco per il lavoro che ci mette. Le religiose, concilianti, accettano di trasformare la mezzadria in un terraggio, una specie di affitto che deve essere a prezzo fisso. Constant si ritira soddisfatto. Non per molto, però: ecco che viene a sapere di un altro lascito che le religiose stanno per ricevere; si tratta di due arpenti (circa 71 metri quadrati) di vigne in località Les Chataigners, che vanno a toccare proprio le sue terre; e queste vigne non sono soggette a tasse. Constant si presenta dunque di nuovo a Ronceray e ottiene le vigne, a titolo vitalizio. E qualche tempo dopo, a furia di insistere, si farà donare altri due arpenti di pascoli vicino alla Rocca di Chanzé.
Ecco l’umile servo, all’inizio un semplice domestico dell’abbazia, divenuto un ricco coltivatore. Sfortunatamente, sua moglie Gosberge non gli ha dato figli; così prende con sé suo nipote Gautier e sua nipote Yseult; la seconda sposerà il cellario (economo) dell’abbazia, un certo Rohot. Quanto a Gautier, Constant ci tiene a lasciargli le terre su cui ha lavorato. Egli stesso, in tarda età, chiede di entrare come monaco nell’abbazia di Saint-Aubin; sua moglie, dal canto suo, prende il velo a Ronceray. Ma, una volta monaco, Constant pretende dalle religiose, in cambio di una vita di onorato servizio, che suo nipote goda degli stessi suoi vantaggi e delle sue stesse terre. E l’ottiene.
La storia di Constant Leroux potrebbe essere quella di migliaia e migliaia di altri “villani”: contadini laboriosi, tenaci, furbi, attenti a tutte le occasioni per arrotondare il loro poderetto, sfruttando da esperti i pascoli delle valli e le vigne in collina; in più, attaccati alla famiglia quanto ai loro beni e capaci, alla fine di un’esistenza che si è potuta credere soltanto “terra terra”, di alzare lo sguardo verso il cielo.

Il villano

L’Aratura - tappezzeria di Bayeux (inizio XII secolo).

Ma la categoria dei “villani” non comprende soltanto i servi: il contadino può trovarsi in una quantità incredibile di condizioni tra la libertà totale e la servitù. E, si noti bene, la parola villano nel Medioevo non ha il senso dispregiativo che avrà in seguito: è, in generale, chi abita un podere, una villa.
Per cominciare, il Medioevo conosceva qualcosa che il nostro tempo non conosce più: la terra in proprietà assoluta, l’allodio (da cui “alloggio”), libero da tasse e vincoli; nell’Italia meridionale, ciò si è mantenuto fino all’epoca napoleonica, quando, nell’abolire la “feudalità”, gli allodi di fatto scomparvero perché tutto fu sottoposto al controllo fiscale dello Stato. Notiamo ancora che nel Medioevo, quando un contadino si installa su una terra e vi esercita senza esserne allontanato il suo mestiere per un anno e un giorno (cioè il tempo di concludere il ciclo completo del lavoro dei campi, dal dissodamento alla mietitura), è considerato l’unico proprietario di quella terra.
Ma, quasi sempre, uno stesso possedimento ha più proprietari, o almeno più aventi diritto. Dipende tutto dalle usanze, e le usanze si adattano a un’enorme varietà di terreno, di clima, di tradizioni, logicamente, perché non si potrebbero pretendere da un contadino che vive su un terreno povero gli stessi obblighi che si possono imporre, per esempio, ai contadini della Pianura Padana. Esistono tanti costumi diversi, e, all’interno di ciascuno, un arcobaleno di condizioni diverse: da quella del dissodatore che si installa sulla terra vergine e a cui non sarà chiesto che una piccola parte del suo raccolto, fino al coltivatore che si è stabilito su un terreno in piena coltura e sottoposto quindi a censi e canoni annuali.
C’è quindi, al di fuori della nobiltà, una folla di uomini liberi che prestano ai loro signori un giuramento molto simile a quello dei vassalli nobili, e altrettanti che si trovano in una condizione un po’ imprecisa tra la libertà e la servitù; dunque sono molti i contadini liberi. Il giurista francese Beaumanoir distingue tre stati:

  1. I gentiluomini: “dicesi gentiluomo colui che nasce da casata franca, come re, duchi, conti e cavalieri; e questa libertà è sempre ricevuta dai padri”.
  2. I villani: “altra cosa è la libertà dei villani, poiché ciò che essi hanno di libertà viene dalle loro madri, e chiunque nasce da madre libera è libero e ha la libertà di fare ciò che gli piace”.
  3. I servi: “e questa specie di gente non è sempre fatta di persone tutte della medesima condizione, cosicché vi sono molte condizioni di servitù”.

Alla base della scala ci sono, dunque, i servi. Il termine con cui vengono indicati nei documenti è lo stesso con cui in antichità si indicava lo schiavo, servus. Il che non deve trarre in inganno: c’è un abisso tra lo schiavo antico e il servo medievale. Al contrario dello schiavo dell’Antichità, trattato come una cosa, il servo è un uomo, che possiede famiglia, focolare, proprietà e si trova libero verso il suo signore quando ha pagato il suo canone, in cambio del quale egli è protetto contro la disoccupazione, il servizio militare e gli esattori delle tasse. L’unica limitazione alla sua libertà è che non può lasciare la terra che coltiva, ma ciò implica che questa non gli può nemmeno essere tolta; il che, nel Medioevo, era considerato quasi un privilegio. Il contadino dell’Europa Occidentale di oggi deve la sua prosperità proprio al fatto che i suoi antenati erano servi: nessuna istituzione ha contribuito tanto alla fortuna, per esempio, degli agricoltori francesi. Tenuto per secoli sullo stesso fondo, senza il rischio di indebitarsi, di perdere la terra, senza obblighi militari (tutte cose che potevano toccare ai coltivatori liberi) il contadino francese è diventato il vero padrone della terra. Solo la servitù medievale poteva realizzare un vincolo così intimo tra l’uomo e la campagna, fare dell’antico servo il padrone del suolo. Se la situazione del contadino dell’Europa orientale è rimasta tanto miserabile, è proprio perché non vi fu la protezione della servitù: il piccolo proprietario, abbandonato a se stesso, responsabile della sua terra che non poteva difendere, conobbe le peggiori vessazioni che facilitarono la costituzione di immensi latifondi.

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Dicembre, l’uccisione del maiale - Salterio di Santa Elisabetta (XIII secolo).

Le limitazioni alla libertà del servo provengono tutte da questo vincolo con la terra. Il feudatario ha nei suoi confronti il diritto di inseguimento, cioè può riportarlo con la forza nel suo feudo in caso di fuga poiché il servo non deve lasciare la sua terra; si fa eccezione solo per chi va in pellegrinaggio.
Come la proibizione di sposarsi con una persona estranea al feudo (almeno nel’età carolingia), che così si ritroverebbe indebolito; ma la Chiesa non ha smesso di protestare contro questa violazione dei diritti familiari e, infatti, dal X secolo, la troviamo sempre meno. Si stabilisce al suo posto l’usanza di chiedere un risarcimento al servo che voglia lasciare il suo feudo per sposarsi in un altro. Nasce così lo Jus primae noctis su cui si sono dette tante sciocchezze: non è il diritto del signore di passare la prima notte di nozze con le mogli dei propri servi, ma solo quello ad autorizzare il loro matrimonio. Ma, siccome nel Medioevo tutto si traduce in una cerimonia, questo diritto si concretizza in gesti simbolici del signore come, ad esempio, posare una mano o una gamba sul letto coniugale, con l’uso di particolari termini giuridici che hanno suscitato interpretazioni maliziose, del resto completamente sbagliate.
Senza dubbio, l’obbligo più pesante per il servo è la manomorta: tutti i beni acquisiti durante la sua esistenza devono alla sua morte far ritorno al signore; ben presto anche quest’obbligo è alleggerito e il servo avrà il diritto di disporre per testamento dei suoi beni mobili (perché il godimento della terra passa comunque ai suoi figli). Per di più, il sistema non scritto delle comunità gli permette, a seconda delle usanze locali, di aggirare la manomorta perché può, come il libero coltivatore, formare con la sua famiglia una società composta da tutti coloro che (come si dice all’epoca) “mangiano lo stesso pane e dalla stessa pentola”, con un capo temporaneo la cui morte non interrompe la vita della comunità, che può continuare a godere dei beni di cui dispone.
In altri termini, il servo si trova nella stessa condizione di chi abita una casa in affitto: i tributi e i canoni che paga al signore non sono altro che la pigione della terra su cui ha avuto il permesso di stabilirsi, o che i suoi antenati avevano deciso di affidare a un proprietario in grado di difenderli. Un tributo che viene pagato dalla mietitura a luglio fino alla vendemmia a ottobre, mentre, in genere, è a San Michele (29 settembre), o ancora a Natale che si portano al signore i piccoli tributi: due polli, delle uova, un montone, a seconda dei casi. E i servi in particolare vengono a riconoscere il diritto del signore su di loro portando la capitazione, piccola tassa, in genere di quattro denari. Il servo, arrivato in presenza del suo signore, mette i quattro denari sulla testa in segno di dipendenza: il signore li prende e li distribuisce alle persone presenti.
Lo stesso per il famoso diritto di caccia: sul suo dominio, il signore si riserva a volte una deféns sulla quale è il solo a cacciare. Ma è solo alla fine del XIV secolo che la caccia sarà riservata ai nobili, quando la selvaggina si farà più rara. Fino allora, tutti hanno potuto cacciare, e i trattati descrivono nei particolari i modi di tendere le reti e altre trappole che, oggi, sarebbero considerati veri e propri atti di bracconaggio. Nell’età feudale propriamente detta (X-XIV secolo) la caccia è una necessità, e solo i signori possiedono l’equipaggiamento necessario per cacciare gli animali pericolosi: lupi, cinghiali, cervi, volpi, ecc. In alcuni atti, stipulati per esempio con le abbazie, la caccia è menzionata come un obbligo per il signore, perché siano preservati i raccolti e per il menu del convento. E, alla fine della battuta, il signore divide il bottino con gli scudieri e con i servi che lo hanno aiutato.
Lo stesso accade per i diritti prediali: il forno e il torchio sono all’origine dei servizi offerti al contadino in cambio dei quali è normale chiedere un compenso, proprio come oggi in certi comuni si noleggia ai contadini la trebbiatrice o altri strumenti agricoli.
Senza contare che si è fatta parecchia confusione tra parole identiche che però rappresentano situazioni completamente diverse, tipiche dell’età moderna: così la corvée reale (lavori di manutenzione non retribuiti) che verrà imposta in Francia nel 1720 e peserà così tanto sulla classe contadina non ha niente a che fare con l’antica corvée signorile, che riguardava solo il feudo in cui risiedeva il villano e che tornava utile anche a lui (costruzione e manutenzione di ponti e strade, bonifica di terreni paludosi), e per giunta quasi dappertutto riscattata o caduta in disuso. Ma il fatto più grave e che crea ancor più confusione è che i proprietari borghesi che acquistano delle terre (come accadde, per esempio, nell’Italia Meridionale nella seconda metà del Settecento) fanno ricercare gli antichi diritti (tributi in denaro o in natura) a cui quelle terre in passato erano state eventualmente sottoposte per percepirli di nuovo; inutile dire che non cercavano di assicurare la controparte in protezione, ormai di competenza del potere centrale. In Francia, nel XVIII secolo, esiste addirittura un’apposita corporazione detta dei “feudisti”, cioè di ricercatori assunti proprio per scartabellare gli antichi cartulari in cerca di questi diritti. Se mai vi fu sfruttamento del contadino, dell’uomo e della terra, fu proprio in quest’epoca. La ricerca degli antichi diritti cosiddetti “feudali” (che di feudale in realtà non avevano più niente) ristabiliva tributi che erano caduti in disuso al momento dell’acquisto della terra da parte dei borghesi, o perché gli antichi signori non li avevano percepiti per un tempo abbastanza lungo perché la consuetudine ne confermasse la fine (una cosa del genere succedeva al tempo delle crociate, nei casi in cui il signore non faceva più ritorno), o ancora perché alcuni canoni erano stati sostituiti da un tributo periodico (di solito annuale). Ora, queste “restaurazioni” dell’età moderna erano fatte in modo tale che dovesse essere il contadino ad esibire la prova del riscatto, cosa il più delle volte impossibile perché in epoca feudale gli accordi erano più frequentemente verbali che scritti. Per finire, i diritti riscossi si sommavano così gli uni agli altri, mentre, nella realtà si erano spesso soltanto succeduti nel tempo.

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Settembre, la vendemmia - battistero del Duomo di Ferrara (XIII secolo).

Ripetiamo che dipende dalle situazioni, ed esistono servi che a stento mettono insieme di che sfamarsi come servi così ben sistemati da fare invidia agli operai di città, ma in generale, nel XIII secolo, un colono che gode di una terra di 7 ettari e mezzo deve, in cambio, lavorare, erpicare, seminare durante l’anno, e ad agosto mietere e legare in covoni il grano di 0.54 ettari di terra e in più mietere, far seccare e immagazzinare il fieno di 0,27 ettari di pascolo per conto del suo signore, gli deve cioè pressappoco l’8% del raccolto di grano e il 4% del suo raccolto di fieno. Ora, all’inizio del secolo scorso, in Francia si arriva per lo stesso lavoro a una paga massima di 109 franchi (circa 326 euro), mentre la rendita di 7 ettari e mezzo di terra (lasciata al lavoro del colono) con cui è retribuito in anticipo, corrisponde pressappoco a un valore di 1123 euro. Di conseguenza, il servo del XIII secolo è retribuito tre volte meglio di un bracciante dell’inizio del XX secolo! Qualcosa di simile succede per i contadini liberi: dando un’occhiata a diverse regioni della Francia nel corso del XV secolo, il salario (vitto escluso) di 250 giorni di lavoro è superiore del 15% al compenso che per lo stesso lavoro viene dato alla fine dell’ ‘800, benché il lavoro sia cinque volte inferiore!
Ciò detto, è comunque ovvio che la condizione del servo non dovesse essere molto invidiabile: in una società così gerarchica come quella del Medioevo, la condizione del servo implica una posizione di inferiorità paragonabile quasi a quella del meticcio fino a mezzo secolo fa. Per un uomo libero, soprattutto se nobile, sposare una serva significa declassarsi; in un tempo in cui il gruppo ha molta più importanza del singolo, una simile mescolanza è causa di tensione. Anche se bisogna comunque sfumare l’idea che abbiamo di una società a compartimenti stagno, di classi senza nessun contatto paragonabili quasi alle caste indiane. I documenti ci mostrano spiragli di una situazione molto più elastica di quanto pensiamo: ad esempio, nel XII secolo molti cavalieri della zona di Troyes sposano semplici contadine; un certo Milon de Quincy sposa una sua serva, Margherita, che poco prima aveva riscattato lui stesso; oppure, al contrario, un servo di nome Raoul de Granges finisce per sposare la figlia di un cavaliere, e riesce a far affrancare suo figlio e sua nuora dal signore. Si cerca dunque di liberarsi del servaggio, per esempio a prezzo di denaro o impegnandosi a pagare un canone annuale come un libero affittuario: un caso grazioso è quello descritto in un documento francese della fine dell’XI secolo, in cui due serve, Auberede e Romelde, comprano la loro libertà in cambio di una casa che possiedono a Beauvais, sulla piazza del mercato. La Chiesa, essa stessa fonte di mobilità sociale, ha incoraggiato molto l’affrancamento dei servi. I carteggi più antichi contengono atti di affrancamenti collettivi che comprendono a volte fino a cento, duecento o cinquecento servi; altre volte riguardano invece una sola famiglia, o anche una sola persona. Di fatto, nel XIV secolo, la servitù non è quasi più nominata. La cosa curiosa è che questi affrancamenti di massa ai servi non piacevano affatto, e il perché si può spiegare con il fatto che non potevano più godere i vantaggi della servitù e dovevano in più pagare il riscatto: addirittura l’ordinanza del re di Francia Luigi X l’Attaccabrighe che nel 1315 liberò tutti i servi dei possedimenti reali fu accolta con parecchie proteste da coloro che passeranno alla storia come i “servi recalcitranti”. Le testimonianze storiche d’altra parte dimostrano che i servi, davanti ai signori, non somigliavano affatto a cani bastonati: li si vede discutere, sostenere i loro diritti, esigere il rispetto delle antiche usanze e reclamare senza paura quel che loro spetta.

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Agosto, la mietitura - affreschi del Castello del Buonconsiglio, Trento (fine XIV secolo).

Lo stesso esempio di Constant Leroux che abbiamo fatto all’inizio mostra che la vita del villano non è poi così male. Ce la possiamo figurare attraverso un poemetto francese dei primi anni del XIII secolo, che s’intitola l’Outillement au vilain (l’Occorrente del Villano) e che descrive in forma giocosa tutto quel che è necessario al villano per metter su casa. Anzitutto gli ci vuole la casa vera e propria, e dopo, aggiunge nel suo linguaggio pittoresco, “casotto (bordel) e capanna (buron): nell’uno metta il suo grano e nell’altra il suo fieno”. Nella casa, il giullare nota anzitutto, giustamente, il focolare per cui servono ciocchi da bruciare, e non dimentica il bacon, la pancetta che deve stare appesa sotto la cappa del camino; a portata di mano, una brocca per l’acqua di casa. Tra gli altri mobili cita anzitutto “la tinozza per il bagno”, poi la panca e la “tavola per mangiare”, la dispensa, il “letto per giacere” e la “madia per impastare”. Per il focolare sono nominati gli attrezzi da fuoco e da cucina: la catena del camino, la lampada per l’inverno, la pignatta, l’alare, la pentola di coccio e il mestolo per la minestra, la graticola e il rampino per togliere la carne dal fuoco, il mantice, le tenaglie e il mortaio, l’argano a mano, il pestello e il pestellino (probabilmente più piccolo), infine il treppiede e il paiolo, oltre al graticcio su cui sgocciolerà il formaggio. Si citano ancora il salatoio, le coppe, le scodelle, i vassoi, le forme per il formaggio, il coltello per il pane. È curioso veder citare la lancetta “per salassare”, ma sappiamo che il salasso faceva parte del “pronto soccorso” quotidiano. Naturalmente ci sono gli aghi e le forbici. L’autore dà una rapida occhiata al guardaroba: scarpe, stivaletti per l’estate, brache, uose (gambali di cuoio di cui ci si serve sempre per montare a cavallo), cotte e sopravvesti, cappucci e cappelli, cinghie, coltelliere (astucci per coltelli), borse, borsette e muffole (guanti simili a quelli che oggi usano i giardinieri) “ben cuoiate” (foderate di cuoio) per i lavori dei campi e soprattutto per proteggersi dalle spine e tagliare le siepi attorno alla casa. In compenso, il poeta diventa prolisso quando parla di tutto quel che serve per il neonato: bisogna fare la culla prima della nascita e avere molta biancheria e lettiera (paglia per l’imbottitura della culla, da cambiare spesso), trogoletti (tinozze per il bagno) e catinelle chiamate generalmente minettes. Trattandosi delle cose di un contadino, non si dimentica la mucca da latte per l’allattamento del bambino dopo lo svezzamento: saggia precauzione per evitare che di notte piangendo svegli tutta la famiglia. In realtà esisteva il biberon, un vasetto con beccuccio in cui si fissava un pezzo di tela che il bambino succhiava come fa oggi con la tettarella. Tutti gli altri attrezzi descritti riguardano il lavoro dei campi, dalla “carretta per trasportare” al pungolo per i buoi, alla roncola, alla falce, alla vanga, al forcone e al flagello, alla pialla e al rastrello, ecc. È l’attrezzatura dei contadini di ogni tempo.
Come si vede, tutto ci parla di uno stile di vita e di alimentazione che non ha decisamente nulla di drammatico. Il contadino medievale non ha sofferto più di quanto abbia sofferto l’uomo in generale in tutti i tempi. Ha subito le conseguenze delle guerre, ma le hanno sofferte anche le successive generazioni, dal XIV al XX secolo. In più, la maggior parte dei contadini del Medioevo è libera dagli obblighi militari, il castello feudale è per loro un rifugio in caso di attacco, e infine la Pace di Dio dichiarata durante il Concilio di Charroux nel 989 aveva dichiarato inviolabili in caso di guerra (sotto pena di anatema) le case dei contadini, esattamente come le chiese. Ha sofferto la fame nei periodi di cattivo raccolto, ma gli rimane sempre la possibilità di ricorrere ai granai del signore: e non si deve credere che il Medioevo fosse stato una perenne carestia. Secondo una cronaca di Raoul Glaber, monaco dall’immaginazione scatenata e per cui la frase a effetto è più importante della fedeltà descrittiva, nel 1030 sarebbe accaduta una tale carestia che i malcapitati dovessero nutrirsi di erbe e radici; Glaber aggiunge che, nel smania della fame, si sarebbe ricorsi, “si dice”, alla carne dei cadaveri. Sottolineiamo che il cronachista non si assume la responsabilità della frase e si limita a un generico “si dice”. D’altronde, il fatto sarà stato anche vero, ma sarà stato mostruosamente eccezionale. Non vogliamo dire che le carestie del Medioevo siano una leggenda. Ce ne sono state, e molto più frequentemente di oggi, ed è comprensibile, in un tempo in cui i mezzi di comunicazione sono molto più lenti, in cui la parcellizzazione dell’autorità rende le strade meno sicure e i diritti di pedaggio sono più numerosi e consistenti, gli scambi sono meno frequenti. Le variazioni di temperatura o gli accidenti locali (per esempio una guerra feudale) determinano un calo di produzione in una regione mentre in quella vicina regna la prosperità, e il surplus dell’una non va a compensare il deficit dell’altra. Si arriva dunque al punto che in due regioni vicine, senza che vengano in contatto l’una con l’altra, si contrappongano abbondanza e carestia. Ma non bisogna dimenticare che queste carestie sono tanto frequenti quanto localizzate: hanno una diffusione molto limitata, soltanto a quella zona dove si verifica quella tale calamità climatica o politica. Basta dare un’occhiata alle enormi differenze di prezzo che si possono osservare, nello stesso anno, sulla stessa quantità di prodotto in regioni poco lontane. Nel 1198, per esempio, 1 hl di grano costa 1,24 franchi a Évreux, 5,30 franchi a Bernay e 7,85 franchi ad Argentan; e così, a meno di 100 Km di distanza, il prezzo può variare anche del quintuplo, a Évreux poteva regnare l’abbondanza e la carestia minacciare Argentan. Nel 1272, nella sola provincia della Linguadoca, il prezzo del grano oscilla dai 5,40 ai 12 Franchi all’hl, cioè può aumentare anche del doppio, e in Franca Contea dai 4 ai 13 franchi, cioè può aumentare del triplo. Il solo periodo veramente duro per il contadino (come per tutti) è il XIV secolo, quando la Guerra dei Cent’anni in Francia e le lotte tra i comuni in Italia, una serie di carestie che provocano rivolte e sommosse, e per finire la spaventosa epidemia di peste nera falciano in pochi anni un terzo della popolazione europea.

Il villano

Potatura della vigna - cattedrale di Chartres (inizio XIII secolo).

Il contadino è disprezzato? Non lo è mai stato meno che nel Medioevo. Non deve ingannare certa letteratura in cui il villano è spesso beffeggiato: è soltanto la testimonianza del rancore, vecchio come il mondo, del giullare vagabondo contro il “villico” che ha una casa tutta sua, comprendonio a volte un po’ lento e borsa spesso molto difficile ad aprirsi; e tra l’altro basta leggere Boccaccio per rendersi conto di quell’atteggiamento squisitamente medievale di prendere in giro tutto. In realtà non vi saranno mai più contatti così stretti tra le cosiddette “classi dirigenti” (i signori) e il popolo, facilitati dal concetto di legame personale tipico del Medioevo, e nel concreto da feste di tutti i tipi, in cui il signore incontra i suoi coloni, impara a conoscerli e condivide la loro vita più di quanto non si faccia oggi con i domestici di casa. L’amministrazione del feudo lo obbliga a conoscere nascite, matrimoni, morti delle famiglie dei servi, i suoi diritti giudiziari lo impegnano a comporre le loro liti (a volte nei documenti i signori compaiono come testimoni nelle transazioni tra servi); insomma, il signore verso i servi ha la stessa responsabilità che il suo sovrano ha nei suoi confronti. Oggi, il proprietario di una fabbrica non ha quasi contatti con i suoi dipendenti, né ha altre responsabilità verso di loro oltre quella della paga; non lo si vede affatto aprire le porte della sua casa per offrire loro un banchetto se, per esempio, si sposa uno dei suoi figli. Cosa che accade invece nel Medioevo quando il villano siede sì in fondo alla tavola, ma è la tavola del suo signore. Basta d’altronde dare uno sguardo a tutta l’arte dell’epoca. Il contadino e in generale il lavoro dei campi sono dappertutto: nei quadri, negli arazzi, nelle sculture delle cattedrali, nelle miniature dei manoscritti. E in queste opere, in quelle destinate al popolo come al nobile collezionista, la vita dei campi è quella vera: c’è l’aratura, il dissodamento, la cura delle vigne, l’uccisione del maiale. Dal XV secolo, con l’affermarsi dell’idolatria dell’antichità e il conseguente ritorno del disprezzo per il lavoro manuale, il contadino scomparirà dalla pittura (tranne in qualche caso sporadico), e l’immagine della vita campestre che sarà poi riproposta nel Settecento non avrà niente a che fare con la realtà.

Bibliografia
Georges e Regìne Pernoud, Le Tour de France Médiévale: l’histoire buissonnière, Stock 1982, pp. 149-150.
Regìne Pernoud, Luce del Medioevo, Gribaudi 2000.
Regìne Pernoud, Medioevo, un secolare pregiudizio, Bompiani 2001.
Regìne Pernoud, La donna al tempo delle cattedrali, Rizzoli, 1994, pp. 83-90.
Georges Avenel, Histoire Économique de la Propriété: Des Salaires, des Denrees, et de Tous les Prix en General, depuis l’an 1200 jusqu’en l’an 1800, BiblioBazaar, 2010, t. III.



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