Il vino rivoluzionario e i rivoluzionari da cartolina

Da Trentinowine

Non conosco di persona Giovanni Arcari, il blogger di Terra Uomo Cielo (e produttore di un ottimo Franciacorta insieme a Nico Danesi), ci siamo incrociati qualche volta, ma non è mai capitato che scambiassimo due parole. Ma mi piace quello che scrive. E mi piace come lo scrive. La riflessione che ha affidato al suo post di questa mattina (Vino, rivoluzioni e rivoluzionari d’oggi) è un manifesto culturale e ideologico, e forse anche deontologico, che sottoscrivo dalla prima all’ultima riga, dalla prima all’ultima sillaba. Non lo riassumo qui: vi consiglio di andare a leggerlo direttamente sul blog.

Indugio invece su un paio di pensieri, che da qualche giorno fanno capolino nella mia testa. E che, leggendo le parole di Arcari, mi sono tornate prepotenti fra le dita e sulla tastiera anche oggi. Fra sabato e domenica, su questo blog, come sapete, si è consumato un piccolo incidente diplomatico fra me e i colfondisti per una questione di topi morti e di fermetazioni cadaveriche. Una discussione che ha richiesto pazienza (da entrambe le parti), spiegazioni e approfondimenti, ma che alla fine mi pare abbia apportato un minimo di chiarimento. Forse anche un contributo.  Ma poi, penso, ci sia anche dell’altro. Qualcosa che va oltre le nostre piccole scaramucce, che va oltre il Colfondo.

Quello che è accaduto, e in parte ne accennavo anche nel post di domenica, mi fa pensare che forse stiamo esagerando. Mi induce a pensare che da qualche anno, decennio, a questa parte abbia preso forma un contesto complessivo, un approccio estetico e culturale, che ha attribuito al vino valori (im)materiali che gli sono strutturalmente estranei. La mitizzazione del vino, fenomeno a cui abbiamo contribuito anche noi che da anni scriviamo di queste cose, ha caricato la bottiglia di valori semantici che vanno oltre il grappolo d’uva e ciò che ne deriva. Il vino è diventato mito. Oggetto sacro. Vitello d’oro a cui immolarsi. Un’autentica Jihad da barricaia. E così, in nome di questa valorizzazione eteronoma, che è anche una fenomenale manipolazione valoriale, ciascuno imbraccia il fucile, si piazza in trincea, o sferra l’attacco, e conduce la sua rivoluzione.

Di volta in volta, l’orizzonte di questi rivoluzionari da cartolina o da presepe, cambia: il vino eroico, il vino epico, il vino free, il vino biologico, il vino biodinamico, il vino naturale, il vino autentico, il vino del nonno e quello del bisnonno. Il vino della tradizione e il vino Vattelapesca. Purché sia qualcosa che infiammi gli animi ed ecciti qualcosa d’altro. E magari alluda anche ad un mondo arcadico che non c’è più e che non c’è mai stato. Ma in cui magari ci piacerebbe andare in vacanza. Ma solo in vacanza: perché poi viverci, nell’Arcadia contadina e autentica dei nonni, è tutta un’altra cosa. E non sono tanto sicuro che i rivoluzionari da cartolina, o da presepe, ne siano capaci.

Nel loro schema di penseiro non importa se questo vino, eccitante e mitizzato, sia una cosa buona o un brodo di topomorto (e non sto parlando di Colfondo). L’importante è la rivoluzione. E’la sacra causa a cui si dedicano con minuzioso spirito di sacrificio e con generosa dedizione. Il vino in questo senso diventa una sorta di manuale sociologico, chiave di lettura di contesti sociali, e paesaggistici, e di dinamiche collettive. Ma non è più considerato per la sua bevibilità. Per la sua piacevolezza. Non è più una cosa da bere. Questo gesto, bere il vino con piacere, diventa gesto secondario. Ma non essenziale alla causa. Al movente e all’obiettivo della rivoluzione.

Non credo che questo approccio, che fra l’altro ha una matrice culturale industrialista, forgiata nell’Amerika degli anni Ottanta, faccia bene al vino. E a chi lo produce. Perché ne corrompe la natura e ne modifica la funzione. Perché lo strumentalizza e lo piega ad utilità (psicologiche, economiche, sociologiche) altre.

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