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Il vino trentino fra attualità e futuro

Da Trentinowine

OLIGOPOLY

di Angelo Rossi – Dopo la diagnosi, un tentativo di prognosi. Non è certo l’unica possibile, ma almeno una base sulla quale poter dibattere. Or dunque i Vignaioli, e non solo loro, pretendono di discutere gli assetti futuri della vitienologia trentina attorno ad un tavolo interprofessionale e paritetico con le altre categorie. Cosa impossibile fintanto che le cooperative del vino occupano la stragrande maggioranza nel Consiglio del Consorzio vini. Sopra il tavolo ci dovrebbe stare l’assessorato all’Agricoltura, dato che indirizzo, coordinamento e controllo sono prerogative riservate dallo Statuto d’autonomia alla Provincia di Trento. Sappiamo però che la PAT si è chiamata fuori almeno dai primi due incarichi, lasciando fare agli oligopoli che negli ultimi 15 anni se ne sono assunte le responsabilità.

Oligopolio deriva dal greco antico significando “pochi che comandano” (leader) e sta fra la concorrenza perfetta e il monopolio. Nel caso nostro e per capirci meglio passando a desinenze latine, si potrebbe parlare di “Ultracoop”, intendendo per esse il risultato di una naturale evoluzione alla quale si sono dovute votare le Cooperative vinicole dalle performance più brillanti già prima dell’avvento della globalizzazione dei mercati. Detto brutalmente, sono quelle che si sono trovate a dover crescere sempre e comunque, pena l’essere superate da altre più performanti, come succede nel classico modello industriale. Il limite, per le nostre Ultracoop, è dato dall’agricoltura stessa e dal territorio che non è infinito. Negli ultimi anni si sono allargati i vigneti e razionalizzate al massimo le produzioni, comprimendo i costi secondo modelli collaudati. Non bastando tutto ciò, si sono acquisiti vini in zone limitrofe e non, cercando contemporaneamente anche nuovi sbocchi, a cominciare da quelli americani. Il management è stato all’altezza: ha assicurato redditività al sistema pur navigando in acque tempestose come quelle agitate per anni dal cambio €/USD, dalla concorrenza di altri competitor nazionali e dal crescente affrancamento dall’import con produzioni interne da parte del mercato USA. Si è lottato per affermare il brand e limando anche il centesimo. Ora le vacche magre stanno passando e si fiuta una contingenza più favorevole. Bene? No, o almeno non abbastanza per essere ottimisti. Semplicemente perché i lunghi anni della crisi sono passati senza progettare nulla di nuovo mirando solo al consolidamento dell’esistente o a salvare il salvabile. Le vicende che hanno interessato due poli abortiti e la crisi di alcuni Primi gradi lo hanno confermato. Le Ultracoop, infatti, si sono consolidate con la riduzione dei Primi gradi a meri centri di raccolta, assolvendoli dalle maggiori responsabilità, svuotandoli non solo della loro funzione d’impresa (che contempla una dose di rischio), ma soprattutto cambiandone il DNA intimo e quindi storico.

La cooperazione, si dice, non può più essere quella di una volta, mutualistica, ecc. ma un’impresa che deve stare sul mercato con le sue gambe, per assicurare sacrosanti redditi ai produttori. Altrimenti il management se ne deve andare, o quasi. Sappiamo che la redditività del sistema è stato posto in cima alla scala dei valori e che parole come morale, etica o territorio sono servite solo per dar aria alla bocca. Territorio, appunto. Qui ci sarebbe da scrivere per delle ore, ma in questa sede basterà la considerazione condivisa dai normali osservatori che il “Trentino” vinicolo (è questo il nostro cognome) si è svaporato e non vale nemmeno più quello di un tempo. Certo, i c.c.b. sono attivi, ma è il patrimonio (con il suo valore fondiario) che ha perso consistenza e da qui bisogna ripartire. Magari umilmente, facendo qualche passo indietro per ritrovare la strada giusta.

Di solito è dopo una guerra che si ricostruisce un sistema, partendo da zero. Per assurdo, invece, partendo da una quota buona com’è quella attuale, le cose sono più difficili perché i soggetti non sono per nulla disposti, nemmeno temporaneamente, a rinunciare a livelli pretesi come standard. Non parlare al manovratore, si è continuato a ripetere e si continua a sentire. Ma se il territorio è finito, intendo non allargabile, non c’è altra strada che migliorare l’esistente, valorizzandolo con idee nuove sia sul fronte del contenimento dei costi (collina e fondovalle) come su quello varietale.

Va da sé che il problema è tutto della cooperazione, benedetta, e guai se non ci fosse in un ambiente polverizzato come il nostro. E’ il pensiero cooperativo che oggi deve riaffermarsi con un progetto che vada oltre gli schemi passati, rispettando e alimentando sì le Ultracoop, ma rifondando e nutrendo al tempo stesso i Primi gradi come riferimenti insostituibili per una nuova politica nei rispettivi distretti. In altri termini, se gli Oligopoli/Ultracoop sono quelli sopra detti, la cooperazione vitivinicola trentina nel suo insieme sfiora il monopolio e questo è un guaio assoluto se non s’innestano, coinvolgendoli, i residui soggetti privati, come i Vignaioli. Mi rendo conto che il concetto farà rizzare i peli a più d’uno, ma una moderna politica agricolo-territoriale passa ormai per forza attraverso un’assunzione di responsabilità da parte di tutti i soggetti che insistono su un determinato distretto. A prescindere dalle corporazioni di provenienza e mi sembrerebbe offensivo per le intelligenze in campo insistere su questo tasto. Vero è, ad es. che il PICA di Cavit che monitorerebbe e indirizzerebbe i vigneti come meglio non si potrebbe immaginare, è precluso ai non Soci col risultato che non se lo fila nessuno e che si continua a impiantare Pinot grigio ovunque. Il coinvolgimento dei privati obbligherebbe ad un aggiustamento del tiro e questo è solo uno dei cento esempi per cento iniziative comuni che si potrebbero varare.

Da che parte cominciare? Dal problematico rilancio dei Primi gradi con la contorsione di budella che comporterebbe, o da un nuovo Tavolo vitivinicolo trentino dove, fin da subito, si coinvolgono tutti i soggetti che condividono l’analisi dell’esistente e che siano disposti a discutere una strategia di medio-lungo periodo per dare una svolta moderna al sistema? Per la mia modesta esperienza opterei per la seconda ipotesi. Ho, infatti, avuto il privilegio di assistere per anni in CVT/ITV ai confronti e talvolta agli scontri fra esponenti che portavano le istanze dei loro comparti contro interlocutori che difendevano opposte ragioni: si discuteva, si approfondiva e infine si decideva. Senza votare formalmente, perché il gentlemen agreement non prevedeva vincitori e vinti, maggioranze e opposizioni come in un Consiglio comunale. Quello era un Consiglio interprofessionale con operatori professionali che alla fine riuscivano ad anteporre le esigenze di crescita del territorio a quelle aziendali o di comparto. Un’interprofessione paritetica, quindi, con nessuno che si sentiva in minoranza, ma dove l’idea buona poteva arrivare anche dal più piccolo dei Soci. E’ stato bello finché è durato, come si dice.

Ora però, con le Ultracoop consolidate, non vedo più alcuna ragione per non prendersi il coraggio di rifondare una vera Organizzazione interprofessionale. Se si condivide la pariteticità (verbale) reclamata dai Vignaioli e se il colosso cooperativo, mi sia concesso, non avrà paura della mosca, non c’è più alibi che tenga: si prevedano da un lato i Primi gradi con le loro prerogative storiche), dall’altro i Vignaioli e nel terzo le istanze Industriali comprese le Società di capitale che si rifanno alle cooperative. I primi due comparti s’intenderanno perché li accomuna l’interesse precipuo territoriale, le istanze Industriali si relazionano con i produttori sapendo che le loro finalità prescindono dal territorio. Lo potranno sfruttare, stando nel settore degli imbottigliatori, ma non piegarlo alle loro esigenze fino ad asfissiarlo.

E il reddito, chi lo assicura? Nell’immediato lo assicurano le nuove relazioni che le Ultracoop devono instaurare con i Primi gradi e questi ultimi – qui il passaggio fondamentale – dovranno dividere i loro conferenti fra attori del “progetto di qualità” o del “progetto industriale”. Pari dignità. Così i piedi del viticoltore, perché è per loro in definitiva tutta questa storia, potranno essere messi in due staffe e viaggiare più sereni e orgogliosi dell’appartenenza.

Chiudo con una consolazione, un po’ amara, ma pur sempre una consolazione. Se continuerà l’immobilismo degli ultimi 15 anni infatti, ci sono altri che non sono stati a guardare continueranno a muoversi, a nord e sud del Trentino: L’Alto Adige continua ad essere un facile modello di riferimento per il cosiddetto “progetto di qualità” anche se questo bisognerà “trentinizzarlo” condividendolo e poi realizzandolo; il Veneto, senza troppo chiedere permesso e dopo aver messo in sicurezza la Glera per il suo Prosecco (il più grande progetto vitivinicolo del dopoguerra), sta dando sfogo al suo immenso vigneto con impianti di Pinot grigio supportati dalla nuova DOC Venezia che abbraccerà tutto il nord-est e che renderà disponibile per il “progetto industriale” tutto il “grigio” che sarà necessario, con costi inferiori ai nostri. Hanno pensato anche a noi e per noi.

Questo hanno imparato i nostri vicini dagli anni della crisi e noi possiamo solo rincorrerli.


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