La leggenda della bell’Alda è tra le più celebri della provincia di Torino. Forse per il suo tragico epilogo, che fa riflettere sui risultati che si ottengono con un comportamento troppo vanitoso, o forse perché la storia è legata ad uno dei luoghi più affascinanti del territorio: la Sacra di San Michele. La Sacra si trova sul cocuzzolo del monte Pirchiriano, a 962 metri d’altezza, e veglia sull’imbocco della Valle di Susa. E’ il monumento simbolo della regione Piemonte ed è presente nelle opere di vari artisti, pittori e scrittori. Ad esempio Giuseppe Pietro Bagetti nel 1830 circa ne trasse un suggestivo dipinto (presso la GAM di Torino), mentre Umberto Eco si è ispirato a lei per l’ambientazione del suo romanzo “Il nome della rosa”.
G. P. Bagetti, La Sacra di San Michele, 1825 – 1830, GAM Torino. Spicca a destra la torre della bell’Alda.
Le origini della leggenda di Alda si perdono nelle spire del tempo. Di sicuro inzialmente la storia fu tramandata per via orale e in seguito venne trascritta. E del racconto scritto esistono varie versioni. Una delle più antiche risale al 1699, ad opera di P. G. Gallizia. Questo storico afferma che la vicenda si sarebbe svolta nella prima metà del 1600, durante una delle guerre contro la Francia.
Nel XIX secolo la storia fece furore, per i suoi risvolti romantico – gotici. Raccontarono della bell’Alda: nel 1829 il politico Cesare Balbo; nel 1847 lo storico Domenico Carutti; nel 1867 il poliedrico Massimo d’Azeglio; nel 1877 Mario Leoni; nel 1884 l’illustratore e scrittore Edoardo Calandra (fratello dello scultore Davide), il quale fece di Alda addirittura la promessa sposa di Arduino d’Ivrea, anticipando così la vicenda al Medioevo. Queste redazioni sono molto simili tra loro, si differenziano soltanto per alcuni piccoli particolari.
La bell’Alda illesa dopo il primo salto. Illustrazione di Edoardo Calandra, 1884.
Ma allora che cosa narra a grandi linee questa leggenda? So che morite dalla curiosità, perciò non vi terrò più sulle spine.
Tanto tempo fa viveva una contadinella di nome Alda, che lavorava le terre del monastero dell’abbazia di San Michele.
Era una fanciulla molto pia e bellissima, tant’è che spesso veniva importunata. Un giorno, un manipolo di soldatacci l’adocchiò. Volevano divertirsi con le grazie di questa fresca giovinetta e così tentarono di rapirla. Lei riuscì a sfuggire e scappò in direzione del monastero. Subito i manigoldi si misero ad inseguirla. Alda arrivò così alla Sacra, ma trovò le
porte del monastero e della chiesa sbarrate e non potè chiedere asilo. Allora continuò la sua corsa forsennata fino a raggiungere i resti della torre di un’antica costruzione che sorgeva lì vicino. La torre era costruita sul bordo di un profondo precipizio, perciò la ragazza non aveva più scampo. I gaglioffi furono presto alle sue calcagna: allora lei disperata invocò l’arcangelo Michele e, piuttosto che sacrificare la sua verginità, decise di gettarsi nel vuoto. La bell’Alda però non morì: durante il salto due angeli accorsero in suo aiuto e la posarono dolcemente a terra senza un graffio. Il fatto creò un grande scalpore e tutti iniziarono a gridare al miracolo, dicendo che Alda era una santa. La fama iniziò a dare alla testa alla ragazza, che perse la sua umiltà e si insuperbì. Alle richieste dei compaesani di ripetere il salto, lei accettò, sicura che le sarebbe andata di nuovo bene.
“Ma imparò non doversi tentar’Iddio, poiché allora trovò un precipizio, dove prima havea trovata una commoda discesa” (Gallizia, 1699)
Quindi la vanitosa Alda rimase fregata, perché si spiaccicò ben bene sulle rocce del monte Pirchiriano e di lei non rimase quasi nulla.
Illustrazione di Edoardo Calandra, 1884.
Nelle varie redazioni della leggenda Alda è a volte contadina, a volte pastorella. Gli insidiatori della sua virtù sono soldati francesi, oppure un suo corteggiatore respinto, o guardie assoldate da un signorotto locale invaghitosi di lei. I suoi salvatori possono essere angeli, ma anche semplici nuvolette che la portano fino a terra. Tutte le versioni sono unanimi però nel macabro finale. Come scrisse in dialetto nel suo racconto il d’Azeglio:
“’L tocc pi gross l’è staita l’ourìa”
In parole povere significa che l’orecchio fu la parte più grossa del corpo di Alda che venne ritrovata dopo il secondo arrogante volo. Sul resto vi risparmio i particolari!
(Ringrazio per le immagini delle illustrazioni di Edoardo Calandra la Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte “G. Grosso”, Via Maria Vittoria 12 Torino)