Di ALESSANDRO SICILIANO
INTRODUZIONE
La rappresentazione e il vuoto, suo impossibile. Quale intreccio, quali implicazioni, tra psicoanalisi e arte?
Nel testo che prendo come riferimento in questo lavoro, il Seminario vii di Jacques Lacan, lo psicoanalista avvia il suo primo studio dettagliato di ciò che lui stesso definirà il registro del reale e delle implicazioni profonde del rapporto impossibile che l’uomo vi intrattiene. Sappiamo infatti come l’essere umano sia caratterizzato dal dispositivo del linguaggio, che si pone come termine antitetico al reale, da cui il celebre aforisma hegeliano “la parola uccide la cosa”. Ed è proprio la Cosa, con la maiuscola, la freudiana Das Ding, che è alla base, all’origine – un’origine sempre già cancellata – della struttura del soggetto. La questione fondamentale per la psicoanalisi lacaniana, a partire dal Seminario vii è: in che rapporto stanno soggetto e Cosa? Il soggetto è classicamente una mancanza-a-essere, un niente, una inconsistenza che è “rappresentata da un significante per un altro significante”; Das Ding è l’elemento la cui perdita innesca l’apparato psichico tutto. Da questa speculazione intorno al vuoto e a quelle che potremmo definire le assenze fondanti l’individuo, si apre un nuovo lungo periodo dell’insegnamento dello psicoanalista parigino. Un altro modo di intendere questa psicoanalisi potrebbe essere questo: un’indagine su ciò che del simbolico si è sempre conosciuto, cioè la dimensione dell’assenza necessaria alla nascita del simbolo, ma su cui si è sempre fatta poca attenzione. Prendendo sul serio il versante della assenza della Cosa, la conseguenza importante e ineludibile è che la Cosa per l’umano – animale di linguaggio – è da sempre assente, cancellata; la natura è persa, l’origine mitizzata, l’istinto pervertito dalla presenza del linguaggio e della cultura.
Quali, dunque, i rapporti tra soggetto e vuoto? Nel tracciare una risposta, mi sono concentrato sulla pratica artistica di organizzazione attorno al vuoto, la soluzione più sublime secondo Nietzsche, Freud e Lacan. Ho seguito infatti una linea teorica che va dal Nietzsche de La nascita della tragedia, passando per Freud – nello specifico alcuni passi de Il disagio della civiltà – e arriva al Seminario vii; quest’ultimo è profondamente attraversato da una venatura chiaramente nicciana a cui lo psicoanalista non fa, stranamente, mai riferimento. Il discorso lacaniano sulla bellezza, sul fenomeno estetico, sulla velatura del reale, sulla sua parentela con l’atteggiamento religioso – con tutte le divergenze del caso – si sovrappone perfettamente alla speculazione che Nietzsche, con i due grandi spiriti apollineo e dionisiaco, proponeva quasi un secolo prima. La sublimazione del vuoto è una operazione talmente “elevata”, dignitosa e “nobile”, da arrivare a essere anche “creatrice di valori sociali”, come dice Lacan. Problema non da poco; la civiltà interverrebbe quindi due volte sul vivente, una prima con la cancellazione della Cosa, una seconda con una valorizzazione sociale delle soluzioni sublimatorie, delle nascite simboliche o al simbolico. Una dimensione, questa della valutazione delle invenzioni soggettive, che rimanda a un discorso filosofico-politico ed etico di cui in queste pagine non mi occupo, ma che varrebbe davvero la pena indagare meglio e tenere in attenta considerazione, non fosse altro che per conservare un occhio critico sulla figura professionale dello psicoanalista, sulla quota di potere, il ruolo sociale che una funzione del genere consegna.
Un capitolo di questo lavoro è dedicato a Federico Fellini, all’invenzione del suo cinema, che è anche la sua personale sublimazione. Con particolare riferimento al film 8½, ho tentato di mostrare in che modo l’opera del regista riminese sia un esempio paradigmatico di sublimazione artistica come pratica di organizzazione attorno al vuoto e di come sia possibile intraprendere un lavoro di rappresentazione di ciò che per definizione – o meglio per sottrazione in seno alla rappresentazione stessa – è irrappresentabile, punto vuoto. Fellini parla della sua opera con una chiarezza e con una vicinanza ai nostri argomenti, alle indagini di Nietzsche e Lacan, che non c’è stato alcun bisogno di rendere didascalica la trattazione. Quando dice: «Quando lavoro a un film, sono vissuto… E’ il film che vive me», siamo già al cuore dell’estetica del vuoto. In Fellini ritroviamo tutti e tre gli atteggiamenti nei confronti della Cosa che tanto Nietzsche quanto Freud e Lacan ritengono nobili, elevati, dignitosi: la ricerca, il rispetto e soprattutto l’organizzazione intorno ad essa. Un’organizzazione che prende un’aura di sacralità, tale da far scivolare tanti nell’interpretazione religiosa della sua opera. Ma ad essere sacro, in Fellini, non è qualcosa di specifico, bensì lo sguardo, la potenza con cui la sua disposizione affettiva nei confronti di qual-Cosa colora e informa il suo mondo e il suo cinema. Fedeltà assoluta alla propria Cosa, 8½ ne è forse la rappresentazione più riuscita e felice della storia del cinema.
(Continua)