Il vuoto e l’eccedente
8 luglio 2014 di Paolo Marzano
Note intorno all’equivoco ‘barocco’ nel Salento (parte prima)
“… il barocco leccese è un tema eccezionale, o eccentrico, ma paradigmatico: l’argomento si presta all’analisi di una produzione di tipo artigianale e di senso collettivo nonché a lumeggiare il meccanismo storico per il quale solo nel Settecento e riformisticamente si produce il passaggio – altrove in atto da tre secoli – dalla vecchia situazione alla nuova che è caratterizzata dal distacco tra attività di progettazione ed esecuzione materiale dell’opera. Questo ritardo ha l’effetto di saldare la parabola storica moderna attraverso un lungo medioevo baroccheggiante, senza percorrere i passaggi del rinascimento, del manierismo e del barocco stesso linguisticamente inteso nel senso più proprio”.
(In Strutture e personalità del Barocco leccese, cap. I, pag. 11, in Architettura Barocca a Lecce e in terra di Puglia, Maurizio Calvesi e Mario Manieri-Elia, Carlo Bestetti – Edizioni D’Arte, Milano-Roma. Fotografie di Maurizio Puolo, Dicembre 1970). Perché il barocco leccese è un tema eccezionale? Possiamo provare a dare una risposta. Ritengo, senza alcuna presunzione, con il solo intento di apportare qualche riflessione e confrontare delle ipotesi, inserendole in un ambito concettuale ancora molto incerto. Sono importanti i nuovi documenti, nuove relazioni tra periodi storici, rapportando oggetti a parole, percorsi a monumenti, gesti a concetti. Anche un diverso uso di filtri critici può aprire a nuove configurazioni geografico-artistiche utili a consolidare le differenti possibilità di approccio all’opera d’arte. Il termine barocco e, a maggior ragione, il suo significato, si precisa perlopiù indagando l’estesa letteratura sull’argomento che la storia, la filosofa e l’ arte hanno ampiamente trattato, lavorando su comparazioni ad esempio, per citarne alcuni, tra l’arte visibilista di Hildebrand e, una volta compresa la premessa concettuale della teoria dell’ Einfuhlung di Wolfflin, non tralasciando Riegl, Schmarsow, De Fusco, Carl Einstein o il concetto descrittivo del “pittorico” (das Malerische) di Burckhardt. Questo solo per identificare il contesto in cui ci si muove e per avvicinarsi al barocco come componente fortemente dibattuta, che va oltre al fenomeno artistico, capace di attivarsi e proiettarsi emotivamente, nell’umano percepire le cose, evolvendole, nel mondo reale. Avviciniamoci all’opera, proprio dalla parte che più caratterizza il nostro territorio, sempre per cercare di comprenderne le sue differenziate peculiarità legate ai luoghi e alle preziosità scultoree che lo rendono unico (useremo per questo la maniera più pratica e più semplice possibile, per mantenerci certamente nell’ambito artistico e costruttivo che, statene certi, non è lontano dalla caratterizzazione dei significati e dei concetti, poi, trasmessi). Proviamo dunque a spiegare un concetto importante, utilizzando un’immagine, secondo me, esplicativa. Usiamo praticamente un antico sistema di comunicazione dei pensieri più complicati, con semplici relazioni formali; concetti e significati dunque possono essere tradotti dalla pietra! L’immagine che apre lo scritto ritengo sintetizzi, bene l’argomento. La foto che ho scelto, fatta apposta per lo scritto, infatti, non a caso, è proprio quella che abbiamo visto tante volte (sui libri di storia, cartoline, guide turistiche, calendari, pubblicità, ecc…) e che vi ho voluto riproporre, perché utile ad accompagnare (come facevano le imagines agentes di un tempo), descrivendo l’accezione di barocco, proprio per interessare il lettore, del ‘salto’ qualitativo e concettuale proposto. E’ così che diamo forza al potenziale visivo (raccontato), percependo i diversi livelli di conoscenza che ci vengono offerti e che si possono trarre anche, ed a maggior ragione, dalla solita, conosciutissima immagine. Il ‘carattere’ barocco è un sistema di forme ‘in crescita’, si muove in maniera inattesa e repentina e si evolve nello spazio. Artisticamente disegna, incide, scalfisce, scolpisce; e ciò che, era prima, appena superficialmente solo ‘segnato’, arriva, oltre il ‘tutto tondo’. Giunge a significare, dunque, diventare, conquista lo spazio non solo fisico, ma anche quello dell’idea che l’ha generato, arriva allo stato di sublimazione della materia, dichiara esplicitamente, della cosa data, la sua eccedenza.
Fianco – Le diverse soluzioni delle partizioni spaziali sul fianco della chiesa di S. Domenico. Particolare oltreché decorativo anche strutturale, quello di porre di spigolo, tra le due colonne, dei veri e propri contrafforti murari. L’incredibile angolo, di per sè, già un episodio monumentale paganeggiante, con la colonna/Erma gigante, apre il racconto della facciata, infittendolo e fungendo anche da potente blocco strutturale. Nel terremoto del 1743, anche se la chiesa venne in grande parte distrutta, la facciata e il muro laterale non ebbero conseguenze disastrose. E’ da accertare, magari verificando la tecnica costruttiva del muro, ma è possibile che la struttura scelta, con quelle particolari caratteristiche, contribuì a preservare il tempio dal sisma.
Ecco dunque una prima realtà del barocco. Dall’immagine percepiamo un fondo ‘vuoto’ , un muro liscio nudo e la coppia di sculture come il grifo e l’aquila, che si osservano minacciosamente l’un l’altra, fissandosi e cercando di prevedere, anticipatamente, se ghermire o spiccare il volo. Abbiamo delineato quindi l’ intervallo in cui il barocco, diventa ‘attivo’ e proietta nell’ambito, rarefacendosi. Dal muro solido e liscio, dunque, si passa alla sua ‘migliore’ sublimazione. E in effetti, qual è il senso di quel muro nudo, nel sotto balaustra, quando invece la facciata risulta così fittamente decorata, esprimendo il miglior horror vacui del periodo? Invece per la storia dell’architettura le ipotesi possono alternarsi e i punti di vista non fanno altro che arricchire il potenziale concettuale della costruzione, anche di quella scelta. Se l’immagine usata, spiega il senso del barocco, in embrione, per i costruttori, sarà stata la stessa cosa? In futuro vedremo le altre ipotesi sulla potenzialità di quel ‘muro liscio’, posto dietro la balaustra della facciata di S. Croce a Lecce e comprenderemo le teorie che si alternano e che coinvolgono diversi episodi, per esempio altre facciate come quella di San Nicolò e Cataldo sempre a Lecce o la facciata di San Domenico a Nardò, dove sostengo l’ipotesi della struttura ad arco trionfale con parti di muro vuote o lisce proprio per riprendere, di quel modello classico, le caratteristiche decorazioni applicate, necessarie allo scopo e all’uso che se ne faceva. Il muro liscio ripercorre culturalmente possibili riferimenti romanici, ma ritengo, che tutto ruoti intono alla domanda che posi tempo fa: “quanta fortezza c’è nelle nostre chiese?”. Se in effetti continuamente nelle mie descrizioni di chiese, facciate, edifici, campanili, mura che cingono queste fabbriche si ha sempre a che fare con beccatelli, archetti, tori, avancorpi, geometrie a bastione, colonne all’ingresso o accanto a portali d’entrata o ancora colonne angolari (l’allegoria della fortezza possiede una colonna ‘tenuta’ o abbracciata ‘inglobata’!?, ma non complichiamo le cose!). Una volta identificato il ‘salto’, dell’aquila o del grifo, oppure del senso del barocco leccese, allora, procediamo con una prova pratica, facciamo saltellare l’aggettivazione tra l’una e l’altra parola; prima per barocco e poi per leccese. Avremo, appena, più chiara l’idea, e forse la visione, di come può cambiare quel contesto, sempre meno ‘adeguato’, eppure, tanto comunemente utilizzato, quanto confusamente riconosciuto. Proprio per questa sua sfuggente proprietà dei termini che lo compongono. Diciamo che ‘barocco’ è un termine serenamente ‘inglobante’, oserei dire comodo, ma noi, assolutamente non potremmo accontentarci, semplicemente deducendolo della sola ‘scultura in facciata’ o dalle superfici densamente decorate. E se volessimo degli esempi evidenti, per conoscere l’ambito in cui va a comporsi quello che si intende come barocco, ecco arrivare gli episodi più significativi che ne rappresentano gli estremi temporali; per esempio la facciata della cattedrale di Nardò va vista come un’applicazione di ‘metodo’, nel passaggio della sperimentazione napoletana che l’ha generato, ed è una procedura progettuale specifica di Ferdinando Sanfelice (1725) la cui soluzione finale, rispetto all’austero dignitoso accademico progetto elaborato, poi si riduce ad un adattamento alla sezione dell’antica costruzione (il rosone centrale, rimpicciolito quasi della metà, e schiacciato dall’oblò ellittico ad occhio di camaleonte, è inserito nel riquadro della stessa altezza dell rosone principale, questa particolarità finisce per depotenziare incredibilmente l’effetto iniziale). E la facciata della chiesa di S. Domenico, sempre nella stessa città (esistente alla fine del XVI sec.), appartengo a periodi storici e stilistici totalmente diversi, sia nel metodo sia del significato, non sono barocche come stile, anche se la seconda accede totalmente alla comunicazione diretta all’esterno, utilizzando il barocco, solo se inteso nell’accezione suggerita, che elargisce senso alla funzione sperata (la comunicazione). E’ il momento dunque di recepire il messaggio, dal barocco leccese, cogliendone l’aspetto di differenziazione e delinearne, quindi, l’eccezionalità, appunto, intesa come spazio (stilistico/estetico) intorno alla sua eccedenza.
Fig. 3 Facciata S. Domenico Particolare della facciata sinistra di S. Domenico. La comunicazione alla città, avveniva anche elaborando un sistema di sporgenze che, come su un podio, sceglieva e ‘aggettava’, indicando il messaggio a cui porre maggiore attenzione. Il resto degradava fungono da sfondo o semplicemente da percepire come corollario a quello principale. Ricordo come il vescovo di Nardò, Ambrogio Salvio (dal 1569 al 1577), nella cattedrale, facendo indietreggiare il coro, lo spostò dal presbiterio alla zona absidale, pur di far avanzare l’altare con il Sacramento che doveva porsi vicino ai fedeli. Egli stesso progettò dei tabernacoli. Nella foto, come la tastiera di un pianoforte, sono evidenti le tre variazioni di aggetto o ‘avanzamento’ con le rispettive simbologie. Ritengo interessantissimo, per una facciata che non ha ancora l’attenzione che merita, questo particolare sistema di comunicazione scultorea.
Ritengo che proprio questa eccedenza, individui questioni complesse che andranno affrontate da tutti i punti di vista, anche ridiscutendo l’improbabile ipotesi, tante volte dichiarata, del Salento percepito, come ‘periferia’. Ancora, qualitativamente, insuperato (vedi la presentazione, la fotografia, il tipo di indagine, le note, la bibliografia), ci si accorge che, il testo sopra indicato, di Maurizio Calvesi e Mario Manieri-Elia, più passa il tempo e più, se colti con occhi nuovi, certi significati trattati dagli autori, mobilitino dispositivi per cui, una volta ricercata e tentata la definizione di barocco leccese, gli stessi corollari utili ad arrivarci, inneschino concetti che stabiliscono i criteri o le tracce per dedurne l’improbabilità della definizione e l’inefficacia del tentativo di procedere. Anzi aprono a riflessioni che indicano già il suo superamento intellettuale, dandone prova, con le meravigliose fotografie (in bianco e nero) cariche di quell’astrazione che elenca i volumi scolpiti, dove, alla luce e all’ombra si lascia evocare quella nostalgica e struggente poesia di quel Salento che tarda, culturalmente, a lasciarsi trasfondere nell’intorno. E’ evidente che una terra, da sempre caratterizzata geograficamente, come un pontile disteso su uno dei più famosi e frequentati mari della storia, il Mediterraneo, difficilmente possa considerarsi marginale, anzi proprio qui, i gangli della cultura e dell’incontro tra popoli, civiltà ed a maggior ragione, di religioni, pongono le fondamenta di un rivoluzionario spazio di scambio interculturale (i modi e i metodi sono direttamente stabiliti dalla storia) di cui le concettuali (anche fisiche) sezioni stratigrafiche testimoniano l’incredibile avventura avvenuta su quella semplice linea di battigia (ritengo, nel nostro caso e per questi territori, mai interpretata come limite). Ribadire d’altronde che, una terra, secondo la storia dei costumi, degli stili, degli uomini, delle dominazioni, non è mai ‘meta’, ma estesa soglia, spazio di prossimità, sosta per proseguire il percorso obbligato, verso altre concezioni di vita, è importante. Il più alto valore di ricchezza differenziata, combinata al molteplice senso di partecipazione collettiva, è data dalle diverse opere d’arte, che racchiudono significati, con cui si evidenziano; la misura culturale, la qualità dei rapporti nella vita sociale e allo stesso tempo l’ambito vocazionale di un luogo. ‘L’eccedenza’, allora, è anche nella ricchezza rivelata dalla complessità antropologica, dalla preziosità ambientale e storico-architettonica, indotta dalla tradizione, dalla cultura costruttiva del tempo, e poi tradotta, dalla pietra locale, come le tante opere d’arte con le quali, questa terra, è stata aspersa a profusione.
Fig. 4 Decorazione. A – bassorilievo con parasta ionica su decorazione, nella Cella delle Reliquie nell’antica sagrestia del Tempio Malatestiano di Rimini. B – parasta ionica su decorazione del portale di ingresso al chiostro dei Carmelitani Nardò. C – finestra centrale della facciata di S. Domenico a Nardò. E – finestra centrale facciata di S. Maria delle Grazie a Soleto. D – vista generale del tabernacolo degli oli santi nella Cella delle Reliquie del Tempio Malatestiano di Rimini
‘Eccedenza’, dunque, da individuare, isolare, studiare, da sempre esposta, ma da interpretare se ricondotta, nello spazio ‘attivo’ del simbolico. Il fantastico gioco intellettuale, qui proposto, considererà quegli ‘scatti’ architettonici, realizzati dai costruttori (episodi artistici, legati all’artigianalità delle soluzioni costruttive che trovano la loro traduzione nell’arte, generandosi dalla materia, quella più a portata di mano. Dopo la pietra locale, c’era l’arredo sacro, gli oggetti liturgici, le suppellettili. Quella che infatti ho inteso interpretare come la filologia antiquaria scultorea, declinabile, adattabile, flessibile, surrealisticamente trasformabile e altamente mutevole, immenso bagaglio, dal quale gli artisti hanno catturato ‘preso’ idee di riferimento a piene mani. Ho ritenuto opportuno, introdurre, in queste mie riflessioni, due brani, scelti, tra i tanti ed interessanti episodi, che descrivono la densa vita di Ambrogio Salvio, il domenicano vescovo di Nardò che come si è detto, dal 1569 al 1577 guidò quell’antica diocesi. Sono brani tratti dai due volumi che compongono il “Della vita del venerabile monsignore F. Ambrogio Salvio dell’ordine de’ predicatori. Eletto vescovo di Nardò dal Santo Pontefice Pio Quinto e di altre notizie storiche spettanti a quella Chiesa”. Avvicinarsi a quanto scritto da Sebastiano Paoli, fa comprendere l’atmosfera che si viveva in questi territori, e che, ritengo, andrebbe maggiormente approfondita, esplorata e anche confrontata, con altri periodi e luoghi storici, per poter meglio studiare i motivi, l’intensità e la frequenza dei messaggi, lanciati dai mezzi che la Chiesa poteva adoperare a quel tempo e in quei territori. In particolar modo, l’approfondimento, sarebbe utile a percepire la ‘pressione’ comunicativa che le strutture urbane e la loro ‘apparatura’ potevano realizzare. Quindi, auspico maggiori approfondimenti proprio per scrivere la storia di Nardò, di quell’interessante periodo di cui ancora esistono grandi vuoti. I due volumi sono stati pubblicati dalla Stamperia Arcivescovile in Benevento nel 1716. Tali brani descrivono e dunque dimostrano come venne elaborato un approccio interessante, ed allo stesso tempo importante, nei metodi, dall’anziano vescovo di Nardò. Ricordo che Michele Ghislieri fu il Santo Padre, dal 1566 -72, col nome di Papa Pio V, e che richiese proprio quel particolare uomo, per quella particolare diocesi. Andrebbero, ritengo, di certo indagati e approfonditi i motivi, del quadro generale dell’andamento della disciplina cattolica in queste terre poste ‘al limite’ di territori e i loro complicati rapporti, per la difficile ibridazione culturale, sociale, quindi religiosa che si palesavano continuamente. La diocesi di Nardò, proprio per casi come questo, a maggior ragione, conferma sempre più la sua posizione storica, di avamposto della cristianità nel contesto greco/bizantino, inserito in flussi di teorie e sacche di correnti religiose contrapposte fino a definirle ‘eretiche’, contro le quali, come vedremo, tentavano di contrapporsi i messaggi ‘di pietra’, motivo per cui, chi vi scrive, ha scelto di definirne la chiara strategia volutamente ‘antiquaria’. Secondo una filologia d’approccio elementare, ma culturalmente molto conosciuta, come mezzo di persuasione, già dal Medioevo.
Fig. 5 Collarini Come già osservato, ma qui, si conferma, le strutture tarantiniane si caratterizzavano nell’avere, all’altezza del terzo medio delle paraste di facciata e, a volte, anche di quelle laterali, la simbologia o il particolare che più poteva informare sul contenuto di quella chiesa e che il contenitore sacro, come un prezioso scrigno, si proponeva di trasmettere. A – sulla facciata e ai lati della chiesa della Madonna della Rosa il collarino è caratterizzato da un serto di rose. B, F – sulla facciata della chiesa dell’Immacolata di Nardò, al primo livello la ghirlanda di acanto ad uso decorativo, con sonaglio o frutto (melograno aperto ) è appeso come festone, con legacci, usati per i festeggiamenti e l’apparatura, di un evento cultuale, ma di originaria antiquaria (classico-pagana), nel secondo livello le paraste si scanalano e il serto diventa di foglie e frutti legato con particolari mascherine apotropaiche simili ad antefisse romane (giustificano la facciata superiore). Il tutto rientra nella filologia antiquaria a cui fanno riferimento i costruttori per gli apparati decorativi. C,G – Particolare delle paraste a “U” rovescia, della facciata di S. Domenico a Nardò, sostengono un grande capitello. Colto uso di un ‘ordine gigante’, oppure un gioco del movimento già diffuso, di un “toro”, come succede nelle fortezze e in molti dei portali, anche salentini , del tipo angioino/durazzeschi? Riquadrando archi ribassati o a tutto sesto. E – collarino nella facciata della Madonna delle Grazie di Soleto attribuita ai costruttori del Tarantino, con cinghie ed anello, tenute nelle fauci da teste leonine, mostrano un sigillo di certo come vettore del messaggio. D – il collarino sulla facciata della chiesa dell’Incoronata di Nardò, riporta una corona che lo studio l’araldica, ci suggerisce, possa contenere anche la parte turrita che caratterizza la presenza della corona della città. E – collarino sulle paraste nella facciata della Madonna delle Grazie di Soleto attribuita ai costruttori del Tarantino, con cinghie ed anello, tenute nelle fauci da teste leonine, mostrano un sigillo (sembrerebbe una cartagloria) di certo usato come vettore del messaggio, un tempo forse inciso.
Il particolare del collarino sul fusto delle paraste binate o a “U” rovescia (fig.5 G), della facciata di S. Domenico a Nardò (che ho osservato esistere anche sulla facciata di Santa Croce a Lecce), è esattamente un festone con foglie leggermente lanceolate, assimilabili alla modanatura romana del “kyma a lesbio” continuo o a “farfalla” con semifoglia, che segue ininterrottamente gli spigoli. Lo troviamo (il Kyma), tutt’intorno al disegno dell’esterno della chiesa e principalmente sulla parte superiore della facciata, segue tutto il perimetro (delle decorazioni e non del muro vuoto) e ‘contorna’, come se fosse una odierna luminaria, tutte le aperture e i rilievi. La stessa modanatura la troviamo nella figura di testa (aquila e grifo, quindi, a conferma di quell’ eccedenza visiva e contenutistica della figura scelta). Chiaro l’atteggiamento critico della scelta neritina (celestini vs domenicani!?); viene dilatato su tutta la facciata, quella stessa modanatura che invece a Lecce, ‘serra’ o ‘cinge’, con disegno contrapposto, soprattutto la fascia che teoricamente doveva contenere metope triglifi, e che qui, evidentemente, diventa eccessivamente pagana, compresi i telamoni reggitori e il sotto-balaustra). L’immagine risultante, a Nardò, ritengo prevista, è quella della ‘natura’ che nel livello inferiore, insiste nelle sue varianti; cresce, prende spazio ed è capace di amplificare gli istinti umani, distraendo dalla preghiera e dalla meditazione. Al livello superiore invece continua a persistere, ma ne diventa l’elemento ordinatore. La facciata ad arco di trionfo domenicano, dunque, a Nardò, con l’audace riferimento classico (con modanatura antiqua, con un cornicione massiccio e sporgente, con lo zoccolo molto alto quasi un basamento per il colonnato, le cariatidi che sostengono pesi e l’incredibile scala sovradimensionata dell’erma angolare), si inghirlanda e si veste a festa per il trionfo della chiesa sull’eresia. Metaforicamente, sotto l’arco di trionfo, infatti, passeranno ora, e in futuro, i cristiani, cioè le truppe appartenenti all’esercito di Dio. Ricordo ciò che ho già riportato in altri scritti e che ritengo di fondamentale importanza. Il domenicano Ambrogio Salvio è vescovo di Nardò dal 1569 al 1577 e che l’ispirazione, quindi, la decisione della facciata, è contemporanea alla battaglia di Lepanto 1571 (è uno dei buoni motivi per cui l’opera vada tenuta da conto per il suo valore storico architettonico, nell’ambito di tutto il meridione d’ Italia). Coincidono troppi elementi per non definire quella facciata preziosa in ogni suo particolare, e sarà certamente ‘scrutata’ ancora. Per esempio, è molto probabile e facilmente presumibile, anche con un confronto visivo (particolare che difficilmente sarà riportato su documenti, ricordo che la facciata della chiesa non è mai stata descritta nei dettagli come stiamo contribuendo a fare, con questi miei scritti), che il domenicano cerca di ‘naturalizzare’ moderatamente l’azzardo, ritenuto esageratamente pagano, della facciata leccese di Santa Croce, il cui tremendo primo livello, a quel momento, era già costruito fino alla balustra compresi i telamoni reggitori. Il domenicano, teologo, allora, a Nardò, sottolinea l’equivoco sull’interpretazione della legge della natura, ‘sostenuto’, ad esempio, dalle colonne laterali poste all’ingresso del tempio di Lecce. Invece di bacchi danzanti e fauni barbuti a cavallo di volute fin troppo esplicite, di sirene bicaudate o figure femminili che ‘offrono’ il loro ventre come frutto ricolmo, a Nardò, egli contrappone, ‘criticamente’ la norma. La serie di regole che la disciplina impone per la salvezza dell’anima. E, proprio là, dove a Lecce, insiste un nastro con vitigni, spirali e simboli pagani che prepara alla scenografica balaustra sostenuta da telamoni, invece a Nardò ci sono vari omucoli (M. Manieri-Elia) apparati con i vari messaggi di fede, e che ‘segnano’ un intero livello. Gli dei pagani barbuti, esposti in perverse ammiccanti torsioni, non possono avere posto, all’ingresso del tempio, invece, hanno l’obbligo di ‘reggere’ o sostenere la regola che conduce alla salvezza dell’anima. Ne risulta una semplice, ma sconvolgente teoria critica, estetica, simbologica. Penso che possa essere stato proprio questo, uno dei motivi dell’ispirazione della facciata di San Domenico. Essa nasce dal semplice incontro con Dio nel dies irae (giorno del giudizio). Di fronte alla sua presenza, infatti, messa da parte l’arroganza e la superbia, risultano i 13 facinorosi telamoni a Lecce, trasformati, a Nardò, in 13 fanciulli nudi (di cui il perchè di quella simbologia, chiariremo fra un po’) pronti per giudizio.
Fig. 6 Fiori scolpiti Anche in questo caso è importante osservare l’assonanza con la variazione ‘floreale’ adottata in diverse realtà, vicine o lontane, ma assolutamente interessate dalla stessa cultura figurativa diffusa, se non dagli stessi artisti e costruttori anche dall’importanza dei monumentu e dal loro ‘riverbero’ sul territorio.
Ambrogio Salvio fu dunque una grande figura di transizione, ed è proprio dalle grandi figure, che vengono meglio colte le scelte per cui, poi, si adottano direttive che svelano di fronte a quale contesto conveniva agire, e quali azioni erano adeguate per farlo. Il vescovo di Nardò lo fa caparbiamente, intensificando le procedure di divulgazione e adottando ogni sorta di sistema comunicativo che potesse arginare le numerose sacche di resistenza, anche interne allo stesso clero (ignoranza, arroganza, superficialità, obiettivi diversi da ciò che diceva il Vangelo, noncuranza dell’assistenza delle anime e della fede in generale, ecc…). La storia del venerabile vescovo, è la misura, del grado culturale della diocesi a lui riservata, e ne siamo sicuri, non è certo l’esilio, che San Pio V, chiedeva per Ambrogio Salvio, ma la potente testimonianza del suo zelante esempio di vita, offerta alla chiesa. Una figura guida che, in quella terra, funzionasse da vero pastore di greggi contrastando le presunte costanti intemperie e i pericoli di devianze rispetto alla fede. Dunque, il settantottenne domenicano inizia la sua esperienza come vescovo e, a Nardò, completò la sua vita terrena. Completa la sua missione nel migliore dei modi, distinguendosi nelle pratiche di ogni giorno.
Fig. 7 Mutazione Omucolo. Sarebbe interessante indagare l’ipotesi che ritengo, giusto considerare e che vede la parte destra della facciata dominata dal tema dell’asimmetria della vita regolata dagli istinti (usare la parte sinistra dei dipinti, frontoni, timpani, facciate per l’idea positiva di redenzione e la destra come evidenza degli sconvolgimenti dell’anima nel peccato, era già un antico modello riconosciuto; vedi Autun, Saint-Lazare Gislebertus, il timpano del portale ovest, con il giudizio universale del 1120), invasa dalla presenza degli istinti e dell’irregolarità dei comportamenti. Per cui, la natura stessa, che indulge sulla difformità dei comportamenti, se equivocata, espropria l’anima e la colonizza a proprio piacimento. Ciò che, in effetti, sembra succeda nella storia scolpita sulla San Domenico. In quella che appare una ripetizione, (sarebbe senza senso) esiste invece una conseguenza. Nella seconda figura, capovolta, infatti, la testa superiore, che nella prima era un bocciolo, muta, cresce, fiorisce, le volute sembrano diventare le corna di un caprone e la faccia evolve in maschera fogliacea come le tante sulla facciata. Intanto l’omucolo capovolto ‘cambia’ espressione. Il viso inizia a mutare e con esso le sue vertebre, ora diventate più che visibili, forse in continuità con l’appoggio a forma di grande voluta o cartiglio che contiene l’episodio. Quindi il corpo, è già invaso dalla ‘natura’ dell’innaturale, tanto che ne diventa parte integrante. L’anima sedotta è trasformata dalla dimensione dell’istinto, senza norme, l’ha prima affascinata e attratta, poi deformata.
Si ritiene tanto utile quanto necessario leggere questi due volumi, di Sebastiano Paoli per avere un’idea chiara della disciplina, dell’umiltà, della carità, di quella mente fervida posta al completo servizio di Dio. Il suo sistema si basò su una strategia che influì dall’urbanistica alle scelte d’arredo, tutta orientata al miglioramento della qualità della vita secondo le necessarie norme dell’ordine. Ciò che qui interessa, per l’obiettivo che ci siamo proposti, è rimarcare come l’eloquenza del linguaggio, doveva essere agevolata e concettualmente supportata da quella particolare struttura degli attributi che, per questo scritto e per la mia tesi sulla filologia antiquaria scultorea, adottata come mezzo altamente funzionale di persuasione. Per cui è sempre più utile chiamare ‘apparati’, quelli scolpiti sulle facciate di alcune chiese (della controriforma) o le decorazioni di alcuni altari, come lo furono quelle fantastiche strutture effimere organizzate per celebrazioni ed eventi ‘memorabili’, nelle piazze o per le cerimonie a carattere sociale o religioso, comunque liturgico. Una reale filologia, come metodo e mezzo, capace di evidenziare la colta ‘migrazione’ (micro/macro, col repentino ed a volte surreale cambiamento di scala) che dall’arredo sacro, vengono trasposte e tramutate da quel gusto scultoreo, ridimensionando notevolmente quella ‘resistente’, definizione contratta di ‘barocco’.
Fig. 8 Cartaglorie di pietra. Le carteglorie erano un oggetto liturgico usato nella Messa tridentina. Sono una o un insieme di tabelle poste sull’altare di solito dentro una cornice centrale e altre poste ai lati. Di solito riportano delle formule e parte del Messale facenti parte dell’ Ordinario della Messa. La maggior parte di queste formule andavano recitate dal sacerdote chinato sull’altare, le carteglorie servono quindi a recitare senza spostare il messale. In foto, le diverse forme e versioni delle carteglorie. Quante finestre, stemmi, titoli e nomi, apici di altari, cimase di archi, chiavi di portali, riquadri sopra archi, al centro di campanili, arredi sacri, marmi intarsiati, abbiamo visto con queste sagome. E’ un modo di comunicare, spiegare, indicare la sacralità dell’oggetto che si ha davanti. E’ quindi una forma riconoscibile, facilmente memorizzabile, altamente comunicante ad uso e consumo di una città ‘eloquente’ o ‘apparata’. Riflettiamo, le regole sono cambiate, ma nel Salento, di carteglorie (di pietra), ne esistono diverse, proprio come se fossimo sopra un altare e dovessimo recitare parti, di questo oggetto liturgico. Ce lo troviamo sempre intorno, solo ruotando , osservando e muovendoci nei centri storici.
Si potrebbe dire di Nardò: la città delle chiese, dei portali, dei mignani e delle carteglorie . Succede di frequente che, nella storia dell’arte o dell’architettura, siano proprio questi ‘oggetti’ a disporre di una loro volontaria ‘emittenza’, capace di entrare in risonanza con la sensibilità dell’osservatore, con la sua esperienza e competenza, specialmente nel farsi ‘adottare’ nel giusto momento. Infatti, come le antiche celebrazioni, si tratta di una ‘consecutio’ (o correlazione) tra l’alternanza della parola, contemporanea allo spostamento del celebrante e degli oggetti. Dunque diventa determinante, tradurre o richiamare, quindi guidare, significati e intere catene di ‘parole’ legate a simbologie, congiungere episodi ad azioni, supportate meglio da immagini o sintetizzate da oggetti per essere facilitati a registrarli mnemonicamente e ri-viverli, magari altrove, sottoforma di quieta e silenziosa meditazione. Se poi, la stessa parola meditazione, si traduce come uno stato riflessivo utile alla contemplazione, nella sua accezione primaria, cioè misurare con la mente, volgere nell’animo, ripensare, considerare la cosa, fermandovisi a lungo, riflettere e ordire, tramare, allora abbiamo la scena completa di un apparato quasi teatrale che si muove, sempre nuovo, solo se, siamo a conoscenza delle sue regole basate tutte su relazionali sacre. Quale migliore sistema, dunque, fra ricordi e distanze, immagini e misure, luoghi di storie e personaggi interpreti, significati, simboli e simulacri da allocare, costruendo scenari, assolutamente tutti pre – apparati nella mente? Ne risulta una comunicazione abbastanza intensa e un percorso memorativo importante per l’obiettivo moralizzante che si vuole aggiungere a questo processo. E’ interessante soprattutto sottolineare che ancora una volta, vale il ‘metodo’, assolutamente migliorativo di formazione e affinamento, del processo mentale di rivalutazione delle immagini, inserite in scene ed episodi noti, ri-frequentati, ri-esplorati e ri-conosciuti, quindi ripetutamente esperiti (come, per esempio, nella lettura di un’opera d’arte) al fine di memorizzare, senza lavoro o fatica. Sappiamo bene come i predicatori (gesuiti, francescani e a maggior ragione i domenicani) conoscevano approfonditamente questi sistemi seriali di memorie e le complesse interazioni/integrazioni tra, il “metto insieme” del symballo (simbolo), e l’infinito sistema degli oggetti a disposizione, da riempire di significato con gesti, con la mimica e le loro posture, trasportabili poi su altri piani di conoscenza, come spazi sacri, percorsi liturgici, ma anche con quinte teatrali sempre pronte ad essere ‘mosse’ per meglio comunicare, in movimento e per un racconto infinito.
Fig. 9 Portoni portali. Riverberi salentini della facciata di S. Domenico a Nardò? I particolari delle diverse decorazioni (sinusoidali, a grandi e larghe volute, le facce barbute, la loro posizione, la curvatura delle lunghe foglie convesse e le facce apotropaiche fogliacee poste nella raggiera, suggeriscono somiglianze veramente interessanti per l’assonanza con i particolari della facciata della chiesa neritina. A sinistra portone in legno via Cavour, a Galatina; a destra portone in legno via O. Scalfo, Galatina.
Ma leggiamo attentamente i due episodi dai volumi sopra citati, di cui il primo, ho volutamente, titolato: QUEL BASTONE DEL PONTEFICE SAN PIO V, REGALATO CON PROFONDO AFFETTO E STIMA, AL NUOVO VESCOVO DI NARDO’ capitolo I del secondo volume pag. 102 “… Onde strano parvergli a prima vista, che se gli raddoppiassero le fatiche, quando il lasciarlo riposare era necessità più presto, che elezione. Contuttociò, e tra perche ubbidientissimo Uomo si fù sempre egli, e tra perche ancora non sentì mai smorzato in sé quel vivo desiderio di lavorare nella vigna del Signore, accettò ubbidiente la carica, non senza il merito d’un gran rassegnamento fatto maggiore, e dalla sua decrepitezza, e dal bisogno, da lui conosciuto di quella Chiesa. E bene a chi piacerà andare avanti nella nostra storia sarà agevole il ravvisare in lui un ottimo Prelato, un zelante Pastore, e un Padre amoroso verso la cara Gregge alla sua cura affidata. Bisognò intanto che San Pio ve l’astringesse con un espresso comando di santa ubbidienza, che altrimenti la sua soda modestia, e profonda umiltà vinto avrebbe ogni altro rispetto, e rimasta sarebbe defraudata del suo ottimo fine l’intenzione santissima del Pontefice. Quale per rimostrargli sempre più la propensione dell’Animo suo, intento a favorirlo, aiutarlo, ed assistergli in ogni sua occorrenza, lo dispensò primieramente dal pagamento delle Bolle, ordinando, che gli fussero spedite gratis, indi lo provide di denaro per soffrire co minore incomodo quelle spese, che in tali congiunture non possono evitarsi, cendogli pagar mille feudi. Ultimamente con una sovrabbondanza di tenerezza, e d’affetto, vedendolo prender congedo da se per inviarsi al Vescovato, gli donò un suo bastone, il quale a di nostri conservasi nel Convento di S. Domenico in Bagnolo. Essendoche fusse quello tenuto sempre caro dal Salvio, come memoria rimastgli di quell’affetto, con cui il Santo Pontefice lo riguardava…”
Fig. 10 Portali e altorilievi. Confronto tra i particolari della facciata di S. Domenico a Nardò e gli intagli in legno dei due portoni di Galatina.
Altro episodio che ho titolato: GLI ATTRIBUTI CHE ‘DISCIPLINANO’ capitolo III del secondo volume pag. 156 “ … Nella continua occasione di assistere al Coro osservato avea, che alcuni dei suoi Canonici soverchiamente frettolosi, e alquanto distratti, e disattenti recitavano tanto in fretta l’Officio, che tirandosi dietro la voce degli altri tutti, mancavasi molto a quella pausa, e devozione, che ricercasi nel salmeggiare. Chiamatili a se ammonilli il Vescovo più, e più volte. Ultimamente vedendo, che nulla approfittavansene, aspettò che una mattina tutti fussero al Coro i Canonici in atto di aspettarlo per cominciare. Comparve egli, ma vestito, e adornato di tutte le vesti Ponteficali, e assisosi alla sua Sede con una certa aria di maestà, fece un Ragionamento con tal calore, e veemenza, che ne rimasero per qualche tempo storditi. E tanta fu la compunzione, e’l terrore di quei, sovra di cui principalmente scaricorsi quella piena, che per lo avanti ravveduti, ed emendati riuscirono e di consolazione al zelante Pastore , e d’esempio a Compagni. E questo doveroso genio di sempre più mantenere riformato, ed esemplare il suo Clero, lo rendette ancora cauto oltremodo e guardingo nell’ordinare Cherici, e nell’ammetterli allo stato di Ecclesiastici. Ne ciò succedeva, se non quando aveane preso rigorosa ugualmente, che minuta informazione, e dopo averli da per se stesso più, e più volte esaminati. Mostrandosi oltre a ciò renitente molto in dispensare a quel tempo, che da un’ordine all’altro vogliono i Canoni, che si frammezzi: volendo, che col lungo esercizio delle virtù, e col desiderio più ardente, si rendessero maggiormente degni di quel grado, a cui aspiravano. Questi furono i mezzi, co’ quali ottenne, ciocche a prima vista parea poco meno che impossibile, un’intiera riforma di tutta la sua Diocesi. La quale poi andò così in essa prendendo piede, che Monsignor Cesare Bovio immediato di lui successore, benché venisse, come altrove abbiamo scritto, dalla scuola di S. Carlo, ebbe a dire nel primo entrarvi. Io trovo il terreno della mia diocesi molto ben governato senza alcuna erba trista di modo, che non vi è bisogno d’altro, che di ottima semenza. (1) – Dalla relazione depositata presso la biblioteca Chigi.
Fig. 11 Confronti antiquari. Un confronto che ritengo interessante ai fini di evidenziare una cultura figurativa diffusa e facilmente trasmissibile, di alcuni particolari attinenti all’antiquaria adottata a Nardò e nel Salento con quella, antecedente (di poco), nel Tempio antiquario per antonomasia, quello Malatestiano di Rimini. Cultura diffusa, dunque, e riferimenti formali possibili. Per esempio la balaustra con puttini con attributi (come quelli della balaustra di S. Croce a Lecce), il pesante piccolo frontone, delle nicchie laterali sulla facciata dell’Immacolata di Nardò, ricorda i piccoli sarcofaci delle cappelle o la postura delle virtù (reggi scudi o stemmi) che sostengono uno scudo, alla maniera dei soldati nel Mausoleo dei duchi Acquaviva d’ Aragona di Nardò)
Dunque sia l’apparato della ‘veste liturgica’ vescovile, sia del ‘bastone’, (pastorale!? Una prima superficiale indagine al museo di Bagnoli Irpino, non rivela traccia dell’oggetto in questione. Tutto andrebbe verificato indagando tra i tesori delle diocesi o delle sedi che hanno fatto parte della vita del vescovo Ambrogio Salvio) diventano attributi utili, per la traduzione e la volontà del ‘senso’ trasmesso, sottoforma di segni e simboli. L’azione della ‘parola’ offerta o supportata da oggetti viene rafforzata, dunque, da un potere diverso che ne evidenzia e ne istituzionalizza con-sacrando, la sua propagazione. Ma non fu solo intorno a questi attributi che cadde l’attenzione del vescovo domenicano. Contribuì anche ad abbellire chiese e alzò cuspidi su campanili. Cioè, impreziosì con azioni mirate, gli elementi urbani di maggiore ‘emittenza’. La filologia antiquaria, considerata nelle sue infinite varianti scultoree, ritengo conceda la possibile declinazione di una reale lingua ‘altra’, che appari o comunichi, proponendosi su ogni superficie possibile, veicolando messaggi chiari ed espliciti. Il comune argomento dei miei scritti (studi che contemplano la fondamentale ascendenza sull’arte salentina e non solo) dell’antiquaria come filologia, inerente la trasposizione dimensionale (colta anche nella sua accezione di astrazione) di arredi liturgici, rielaborati e giustapposti secondo lo spartito o il fraseggio classico composto da ovuli, astragali, gole, scozie, varianti di antefisse o corolle, che popolano triglifi, metope, dentelli, gocce e sbaccellature piene o semipiene di listelli. Quindi, percorsi stabiliti, utili alla caratterizzazione di un luogo, con un preciso obiettivo divulgativo. Materiale, quello dell’antiquaria, che si presta benissimo per la sua incredibile, dinamica linguistica, appunto, filologica. Naturalmente diventa fondamentale la lavorabilità della pietra locale, la colta disciplina artigiana, l’aggiornamento dei committenti e i flussi culturali, adattati ai linguaggi europei. Il Salento permetteva tutte queste condizioni. La sua espressione più alta, fisiologicamente si rivela e, dunque, seleziona l’incredibile risultato dell’esperienza artistica di sapienti artigiani, scultori quasi cesellatori di oggettistica sacra (molto, ma molto meno, purtroppo, della ricerca dell’anatomia nella statuaria). Non è facile condurre ricerche e studi per seguire un particolare percorso della storia dell’arte, voluto e fortemente, ancora troppo radicato o ingabbiato, purtroppo nel ‘localismo’, estremamente limitante. Ritengo sempre più interessante invece comporre ‘accordi’ quindi confronti formali che nella variante territoriale, pratica traduzioni di altissimo livello, purtroppo ancora isolati o lasciati nel degrado, magari, distrattamente, ignorando o non riuscendo a leggerne la portata, solo perché risulta ancora del tutto equivoco l’approccio all’opera d’arte, in quelle zone.
Fig. 12 Museo Diocesano di Gallipoli. Carteglorie e corona d’argento per affresco, origine napoletana al Museo Diocesano di Gallipoli
Sostengo, quindi, che, più in generale, occorrerebbe addentrarsi nella storia, anche uscendo dai limiti localistici, per inoltrarsi alla ricerca della rotte navali e dei grandi flussi commerciali, dei pellegrinaggi, delle buie carestie e quindi dei paesi svuotati, poi ripopolati da gente diversa, dalle dominazioni di guerrieri, dagli ordini monastici, dalle loro relazioni con la popolazione e l’impatto di quei popoli con le loro regole, ma sicuramente anche e soprattutto dai flussi dei tanti saperi. Quelli per cui la traduzione in pietra diventava strategia e importante mezzo di comunicazione che usava la materia prima, esistente sul luogo. Per cui, come si conviene in una seria analisi e in uno studio comparativo/compositivo, aggiornato ai riferimenti e ai probabili confronti formali supportati, non solo salentini. Una scoperta che vale quanto una verifica e dunque una personale conferma, come quella che vi propongo è che ha fatto più luce sul motivo per cui, sulla facciata di San Domenico vennero usate quelle figure di omucoli posti in serie. A parte il messaggio chiaro delle regole per salvezza dell’anima, o la nudità che evidenziava la situazione nella quale ci presenteremo di fronte Dio durante il giudizio finale, l’attenzione era posta sul perchè di quegli omucoli e dove potevano esserci degli altri, perchè quelli, confermassero il loro significato. L’architettura e l’arte ci sostengono, ma occorre molta competenza e sensibilità, passione e creatività nell’affrontarla. Per esempio, ci accorgiamo di un particolare che proprio la storia dell’arte ci consegna e che lo studio attento, deve virtuosamente utilizzare per comprendere. Infatti, risulta ‘anche’ domenicana, la committenza del grande ciclo di affreschi. Il “Trionfo della Morte” del 1336 – 41, al Campo Santo di Pisa, è l’opera, che a noi interessa, ed è stata realizzata da Buonamico di Martino, detto il Buffalmacco. La scena è stata staccata dalla parete e riportata su tela (misura: metri 5,6×15,0), l’opera è oggi conservata presso lo stesso Campo Santo nel cosiddetto “salone degli affreschi”, appositamente attrezzato per la conservazione al chiuso dell’importante ciclo pittorico.
Fig. 13 Anime Omucoli nudi. Particolari immagini della rappresentazione delle anime, negli affreschi del ciclo dal titolo il “Trionfo della Morte” di Buonamico di Martino detto il Buffalmacco al Campo Santo di Pisa, del 1336 – 41. Dunque era conosciuto il modo di rappresentare dei messaggi trasmessi dalle figure che alfine indicano come era interpretata la forma dell’anima.
L’opera presa in considerazione, non va certo riferita direttamente alla facciata di San Domenico di Nardò, ma ho voluto confermare il paesaggio comunicativo ed intellettuale, conseguente a modelli precisi e ai regolamentati per usarli (flussi di saperi), almeno nell’interpretazione teologica dell’anima che, grazie al programma iconografico e iconologico veniva strutturata, proprio per le particolari simbologie condivise. L’ipotesi, poi, non tanto peregrina, è che l’affresco, o qualche importante nota teologica inerente la traccia, che lo raccontava, potrebbe essere stata già conosciuta come esemplare di riferimento o modello, dal vescovo di Nardò Ambrogio Salvio o chi per lui, che lo adottò per la geniale soluzione del progetto della facciata di Nardò. Infatti, qui le anime sono rappresentate esattamente come quelle dipinte a Pisa. Fanciulli nudi, di media altezza, per cui era giustificato il senso spirituale e la purezza come vettore necessario a cogliere l’obiettivo con il messaggio che supportavano. Le figure sono accessoriate (in qualunque luogo vengano segnalate) di caratteristici boccoli e una particolarissima riconoscibile ‘stempiatura’ che dunque fa coincidere la scelta della ‘forma’ dell’anima agli altri particolari afferenti agli omucoli della facciata di S. Domenico. Negli affreschi a Pisa, quelle figure, escono dalla bocca degli individui nel momento della morte e, a seconda del loro comportamento durante la vita, vengono artigliate e rapite da demoni o accolte fra le braccia amorose degli angeli. Non mancano i casi in cui esse sono, a forza, contese.
Fig. 13b Tradizione bizantina. A sinistra – In una delle architetture bizantine più importanti, come la chiesa di S. Salvatore in Chora a Istambul, edificata nel V secolo, esiste una cappella laterale con degli affreschi e mosaici commissionati fra il 1315 e il 1321 da Teodoro Metochite. Un bambino dalle fattezze che già conosciamo, è tratto da un angelo. Al centro – disegno del 1240 circa, un’ anima che esce dalla bocca di un corpo a Ballerup. la Mills-Kronborg Collection della Danish Church Wall Paintings. A destra – Il particolare de gli eletti, quindi anime-fanciulli, puri di cuore, gioiosi intorno all’angelo, sul portale ovest di Autun, Saint-Lazare Gislebertus 1120 – 1135.
A Nardò invece quelle stesse figure, delle quali abbiamo confermato l’identità di anime, sono utili ad ‘istruire’, diventando supporto di informazione (gesti e attributi), proponendo fortemente la norma domenicane. Il dato importante ai fini dei risultati dello studio è che la datazione dell’affresco, conferma l’ipotesi di una colta e utile retrodatazione del programma iconografico e iconologico nella scelta del racconto della facciata di Nardò diretto oltrechè al clero che andava riportato sulla retta via (leggendo la vita del venerabile vescovo, ci si rende conto del clima miserabile, tremendamente corrotto e deviato della città e della diocesi) e anche al popolo profondamente ignorante, ma soprattutto fungeva come chiara indicazione e suggerimento che doveva distinguersi dalle correnti ‘eretiche’ del tempo, in quelle zone. Concludendo la descrizione che spiega il motivo della scelta di quella serie di figure, anche in questo caso è evidente ‘un recupero’ di linguaggi già verificati. La tradizione bizantina, infatti, adottava due opzioni per raffigurare l’anima (animula); la prima, un piccolo bambino in fasce, come nel particolare mosaico della ‘dormitio Virginis’ di Istambul, dove, è il Cristo ad accogliere l’anima della Madonna (in fasce). La seconda opzione prevedeva la scelta di raffigurarla con sembianze di un fanciullo, proprio come, è stato fatto, per la facciata di S. Domenico. L’importanza della facciata della chiesa (sempre troppo ‘antiqua’ e densa per il ‘ragionevole’ illuminato settecento, nella visita pastorale del Sanfelice non viene menzionata perchè monastica, ma è incredibile il silenzio attorno a questa facciata che nessuno descrive pur essendo così forte il suo messaggio) appena eretta, molto probabilmente determinò uno shock per la popolazione che da quel momento in poi, non dimenticò quelle sculture e quei fregi tremendamente moralizzanti e le diffuse su tutto il territorio o volle appropriarsene facendone decorazioni simili su portoni, archi, portali, lesene, bugnati, riquadri, trabeazioni, capitelli, serti di alloro, risentirono di quella potente opera perfettamente comunicante, da assorbirne, per devozione o per il suo effetto, tendenzialmente apotropaico, l’aura cultuale in tutto il Salento. Un’ultima particolarità, che da prova di quanto c’è ancora da analizzare, esplorando contenuti e indagando sempre più nel dettaglio le strutture che abbiamo attorno, è data dalla scoperta di due figure con occhiali sulle colonne tortili della chiesa dell’ Incoronata a Nardò. Le particolarità, in effetti, non sono certo gli occhiali, che esistevano già da tempo, ma è importante il modo e il motivo con cui viene inserito tale ‘oggetto’. Si tratta dell’altare ‘privilegiato’ della chiesa a Nardò (la chiesa venne aperta al pubblico nel 1599). Può essere un putto o un cherubino a suggerire l’attributo visivo, possibile anche il ritratto di un frate agostiniano (il convento era guidato da quell’ordine) paffutello e occhialuto nelle sue fasi ascensionali meditative, presente in diversi volti con diverse espressioni lungo la spira tortile (ce ne sono due perfettamente simmetrici scolpiti sull’ultima ‘spira’ delle colonne laterali centrali. Sarà forse, lo stesso putto/frate che, avvicinandosi con la preghiera, poi avrà bisogno degli occhiali di fronte alla luce all’Altissimo? Oppure può indicare che, la preghiera e il profondo studio, porta ad un livello di conoscenza utile a guardare, bene dentro le cose, là dove la verità si palesa e dove ad altri è impossibile arrivare? La seconda ipotesi sembra più attinente per i seguaci di S. Agostino d’ Ippona). Maggiori approfondimenti sono auspicabili e di certo si attende un preciso racconto a proposito, con la presenza delle diverse figure di santi vescovi che ‘apparano’ quella bellissima macchina devozionale.
Fig. 14 Altare privilegiato. Frati o putti occhialuti, simmetrici, sulle colonne tortili centrali, dell’altare privilegiato nella chiesa dell’Incoronata di Nardò
Di certo, gli incantevoli racconti figurati scolpiti negli altari, non sono spiegati nè riportati da documenti editi dagli archivi storici o quelli diocesani (difficilmente nelle visite pastorali o quelle che testimoniano un interesse monumentale), e questo, per alcuni è un buon motivo perchè gli altari non parlino, se non come cornice del quadro centrale (ma in effetti l’opera importante a volte è anche, se non proprio, la parte scolpita), o non esistano letture dettagliate. Basta il termine “altare barocco”, per far piacere ai più, e far soccombere la vera funzione delle bellissime ‘opere aperte’, nel senso di attivazione del racconto. Le cose però cambiano, e molte più persone attente, hanno la preparazione e la sensibilità giusta per tradurre le diversificate relazioni nascoste, che ormai sappiamo, esistenti. Credo, invece che questo tipo di trasmissione dei messaggi diretta ai fedeli, fa parte di un racconto figurato che valeva quanto una preghiera, però sapendolo e potendolo tradurre e percepire, alla stregua di un viaggio ‘memorativo’. Era questo, infatti, un metodo persuasivo utile per catechizzare, a cui necessitavano le importanti istruzioni per l’uso di quelle splendide e sofisticate ‘macchine’ devozionali. Come in un intricato percorso narrativo, il cui intreccio può essere scoperto, grazie a personaggi differenti, ed a livelli distinti di ingresso, a seconda della preparazione di ognuno, le storie, agganciavano diversi episodi delle scritture sacre che la teologia avviluppava alle ‘imagines agentes’, producendo reali omelie scolpite. Molte sono le chiese che, a Nardò, fanno solo percepire, perchè ormai quasi invisibili, sulle facciate laterali esterne, dei dipinti. Ma, allora, come si presentava questo paese nel periodo in cui si mostrava come una favolosa galleria d’arte esposta o, come sostengo da tempo, si debba interpretare Nardò, come l’interno di un luogo di culto? Quale responsabilità gli era stata data ‘pre – apparandola’ in quel modo? Ritengo che l’indifferenza, sia ‘colta’, e purtroppo compone i suoi paesaggi piuttosto scoloriti e degradati. Se perdessimo queste tracce, non riportate dagli archivi e non descritti da nessuna parte del Salento, il volto di questa zona preziosa, sarebbe di certo opaco, meno limpido e brillante, muto. Necessita, dunque, essere pronti a ‘vedere’ con competenza, ma sforzandosi di andare oltre, i documenti, preparando magari ambiti intellettuali di ricerca, non certo quella spasmodica ‘da prossima pubblicazione’, e non aver timore di aggiornare le prove che credevamo certe. Altrimenti ci coglierà ancora una volta impreparati, l’arrivo di un nuovo aggiornamento, da un posto lontano da Nardò e che invece racconta, di questo centro urbano, la realtà dei fatti, e sappiamo che ci sono (vedi il Di Furia e il documento che retrodata la nostra guglia di vent’anni, dopo che era già stata data per scontata tutta la sua storia fino agli autori ai progettisti ecc…). Ho già trattato l’argomento, dando un mio modesto punto di vista e formulando una probabile ipotesi. D’altronde tornando indietro di vent’anni, ci troviamo troppo a ridosso dell’ appena passato terremoto del 1743 (infatti nel 1749 la guglia è già pronta), ma allora da quando è stata progettata e costruita? Per solo 5 o 6 anni, dallo sconvolgente sisma, in un clima di lenta ricostruzione, quella struttura, risulta troppo complessa, nelle sue caratteristiche e dettagli, per essere stata generata (progettata) in loco, quindi … ancora una volta, che la storia continui.
Le foto dei particolari della facciata di S. Croce a Lecce, sono di Fausto Laneve
N.B. – Tutte le foto diverse da quelle di mia proprietà sono state ricercate e trovate facilmente su Internet. L’enorme arricchimento di note al testo verrà apposto allo scritto, come sempre, solo nel caso di pubblicazione cartacea.