Il primo. Non lo dico a mia discolpa. Io delle fascette dei libri me ne strasbatto le antenne. Non le cerco, né le evito come la peste. Per me non esistono. Il punto, nel caso in questione, è che era già un po' di tempo che volevo - ebbene sì - leggere questo libro. È stata la mia passione per la fisica a intrigarmi, dato l'argomento del libro. Nelle intenzioni dell'autore dovrebbe trattarsi infatti - il condizionale è d'obbligo - di una specie di science-thriller ambientato nell'ambito della fisica, laddove la vicenda ruota intorno a un intrigo che si svolge al CERN di Ginevra in occasione della messa in funzione dell'LHC (Large Hadron Collider), l'autentico acceleratore di particelle acceso dopo qualche peripezia, due anni e mezzo fa. Per intendersi, lo ricorderete, quello per il quale i media (e non solo) fecero un gran clamore parlando di creazione di buchi neri, Terra che veniva inghiottita e altre idiozie assortite. Insomma, il tema mi incuriosiva, così alla fine l'ho preso. Nonostante la fascetta.
Il secondo. Prima di questo libro non avevo mai letto niente di Arpaia in vita mia (e non leggerò mai più niente di suo in futuro, a meno che qualcuno non decida di pagarmi - e profumatamente - per farlo), per cui tutto quello che dico su di lui come scrittore si riferisce solo allo scempio che ha fatto con questo libro, benché se uno riesce a scrivere una simile bruttura, è difficile pensare che in altre occasioni possa avere scritto - o potrà farlo - dei capolavori. Tuttavia mi piacerebbe, se qualcuno l'ha fatto, che mi dicesse la sua in merito. Ma veniamo al punto. Se avete bisogno di un esempio letterario di come NON si scrive un libro eccolo, lo avete. Perché L'energia del vuoto è quanto di più mediocre si possa avere il coraggio di scrivere (e pubblicare) - in termini professionali, s'intende - sia dal punto di vista della struttura, che della trama, che dei personaggi, che dello stile. Niente di questo libro si salva. Niente di questo libro lo salva. Per quanto ci si possa sforzare con la condiscendenza, la correttezza grammaticale non è sufficiente.
Lo stile. Ingenuo come quello di un dilettante alle prime armi (e di quelli anche scarsamente dotati), infarcito di espressioni colloquiali che non si leggono neanche su Topolino, con dei dialoghi di una banalità imbarazzante e pagine e pagine di inutili “convenevoli” tra i personaggi. Dal canto loro i personaggi sono stereotipi con un tratteggio psicologico degno della sensibilità di una pietra pomice. Ma se questo, in un libro che nasce per essere "di genere", potrebbe anche passare un po' in secondo piano, è difficile non notare i personaggi femminili appiattiti su un registro fastidiosamente maschilista. La struttura è confusa, con diversi momenti della vicenda il cui racconto viene di volta in volta intervallato, ma che non essendo contemporanei finiscono per rendere al lettore disagevole la comprensione di ciò che sta accadendo almeno fino a pagina 150 (e le pagine totali sono 263).
La trama è di una povertà disarmante. Per una prima abbondante metà, il libro si divide tra un evidente intento divulgativo, che avrebbe potuto anche starci purché fosse stato calato con convinzione e (solo) un pizzico di creatività nella struttura della vicenda, invece di essere appiccicato in maniera fastidiosamente posticcia grazie al personaggio di una giornalista (superfica e facilmente arrapabile, vedi maschilismo di cui sopra) che deve scrivere un pezzo sull'LHC, e le vicende di un gruppo di fisici del CERN con allegato scialbissimo drammino familiare (lei, la fisica, che lavora troppo e loro, il marito e il figlio, che per questo si scazzano) alle prese con l'accensione dell'acceleratore. Ho avuto l'idea che, da questo punto di vista, Arpaia abbia avuto l'ambizione di fare con la fisica teorica un'operazione simile a quella che Jostein Gaarder fece a suo tempo con la filosofia ne Il mondo di Sofia, ma quanto a risultati siamo distanti milioni di anni luce. Poi, fino a ben oltre la metà del volume, di intrigo non c'è traccia, tranne una coppia padre-figlio (quelli scazzati di cui sopra) in fuga non si sa bene da chi o da cosa (ma anche qui con dei siparietti di una pochezza davvero tragicomica), ma che a dispetto dello scazzo, continuano a chiedersi che fine ha fatto la moglie/mamma. Anche il dramma conclusivo, quello più grosso, quello che dovrebbe sparare la storia verso il finale e dovrebbe (lasciate che lo dica, qui, una volta sola, perché stavolta è proprio il caso) togliere il fiato, è costruito su un nulla di un'implausibilità infantile. Infine il finale vero e proprio, totalmente inconsistente, se non per farti salire sulle spalle la carogna di aver buttato nel cesso 16,50€, concederti la drammatica rivelazione che Dan Brown è un autentico gigante della letteratura contemporanea e dimostrarti che, circa la non esistenza di un'entità chiamata “vuoto”, la fisica moderna si sta sbagliando di grosso.
L'estratto inutile, ovvero per spiegare che cosa intendo per "convenevoli" (siamo solo a pagina 13 - nella seconda scena dei due fuggiaschi, padre e figlio - Pietro e Nico. Nico è all'oscuro di quanto sta succedendo). Il libro cola in abbondanza scene inutili e dilettantesche di questo tenore come salsa da un Big Mac:
"Quando apre gli occhi, il sole è già qualche centimetro sopra la collina e Nico lo sta scuotendo per una spalla.L'estratto utile (pag. 135, dall'articolo che la giornalista scrive sull'LHC e che Arpaia ci riporta per intero, inutilmente tranne che per questa frase che, date le circostanze, è totalmente condivisibile):
«Papà sei sveglio?»
«Sì, Nico, sì, sveglissimo.»
Le sette meno venti. Il «riposino» è durato quattro ore. Come fuggiasco a una vera mezzasega.
«Papà, ma dove siamo?»
«In Francia, più o meno a metà strada da Marsiglia.»
«E mamma?»
«Te lo già detto: ci raggiunge dopo, in Spagna.» Pietro sbadiglia, socchiude la portiera e scende per guardarsi intorno. Tutto tranquillo, la provinciale vuota, il vecchio tiglio sopra la testa, la ghiaia dello spiazzo, il bar ancora chiuso, i campi incolti, un casolare in pietra sopra la collina, la luce del mattino che pennella l'aria di venature vivide e sanguigne. Quella tranquillità, quel lento battito delle cose intorno, per qualche istante, gli fanno immaginare di non aver mentito: forse quel viaggio è veramente solo una vacanza, forse quell'ultimo anno e mezzo è stato solamente un brutto sogno, forse dopo Marsiglia, Emilia prenderà un volo per Madrid e andranno tutti insieme al mare a Cadaqués o in giro per l'Andalusia.
«Papà chiamiamo mamma?»
E invece no. Non è per niente un sogno.
«Mi è morto il cellulare, Nico. E poi è ancora presto... Se non sta lavorando, mamma starà dormendo. Magari la chiamiamo dopo.»
Decisamente no, non è una vacanza. Emilia non prenderà quel volo. E bisogna rimettersi per strada. Subito.
«Ora fai la pipì e partiamo.»
«Ma ho fame...»
«Facciamo colazione dopo. Al primo bar aperto giuro che ci fermiamo.»
[breve descrizione delle strade e dei luoghi che i due attraversano e che vi risparmio - Arpaia invece no - fino all'arrivo a un bar aperto]
«Buongiorno. Ci dà un caffè di acqua purificata, un caffellatte e un paio di croissant?»
Nico mangia in silenzio, andando su e giù con una mano in tasca e la console stretta sotto l'ascella. Nemmeno Pietro dice una parola, ma inizia a borbottare appena fuori.
«Che ladri... Cinque euro e trenta per un caffè di pura. A Ginevra lo fanno a quattro franchi.»"
"Un qualunque teorico (nel senso di fisico teorico, ndr), oggi, ha forse molta più immaginazione di parecchi narratori in circolazione."Di Arpaia senza dubbio.