Morto, in che senso? Se, mentre leggete quest’articolo, sul vostro computer (o palmare) è aperto Facebook, o iTunes per scaricare musica, o Skype per telefonare gratis, o una finestra per chattare, o un gioco online, in realtà potete già immaginare di cosa stiamo parlando: in un batter d’occhio, quelle (e pochissime altre) piattaforme di diffusione planetaria hanno conquistato il mondo. Si sono appropriate del nostro tempo. E ci hanno allontanato dall’uso di Internet fatto di salti più o meno casuali da un sito all’altro che caratterizzava la navigazione online dei primi tempi.
Il fatto che Facebook abbia cannibalizzato una parte consistente del tempo-web di qualcosa come mezzo miliardo di persone è solo il segnale più evidente di una tendenza che agli osservatori è ben nota. “Oggi – scrive lo stesso Anderson sulla sua rivista – il contenuto che vedi con il tuo browser ammonta a meno di un quarto del traffico Internet, e la percentuale è in calo”. Tutto il resto sono dati che passano sì per la rete, ma per fornire contenuto alle applicazioni. Non è un caso se il settore più vivace e creativo nella programmazione informatica è oggi quello delle cosiddette “app” per iPhone. E non a caso l’iPhone e il nuovo arrivato iPad, insieme al loro creatore Steve Jobs, sono il cuore pulsante della rivoluzione che sta portando dal Web 2.0 al dominio del consumo “mobile”. Fra cinque anni, infatti – stando a ricerche di Morgan Stanley citate da Anderson – “il numero di utenti che accederanno alla rete da congegni mobili supererà quello di coloro che lo fanno tramite PC”.
A ben vedere, se si guarda a questa tendenza dal punto di vista degli investitori, non c’è molto da stupirsi. L’ubriacatura generale che in passato ha fatto sì che tutto ciò che era “online” fosse percepito come “nuovo”, e dunque ben accetto, non poteva durare a lungo, a fronte dell’incapacità di individuare un modello finanziario efficace. Di fatto, oggi appare chiaro che nella parte di Internet più “tradizionale”, quella dominata da Google, non c’è spazio per la pubblicità. I banner ci sono, certo: ma, semplicemente – come scrive ancora su Wired un altro guru, Michael Wolff, “si sono rivelati un mezzo pubblicitario miserabile”. E nell’era della convergenza e dei new media si è verificato un fenomeno che ha del paradossale: la pubblicità su Internet langue (e non è mai andata molto oltre il 10% dell’investimento complessivo), mentre quella in tv arriva al 40 per cento.
Il motivo di questo solo apparente paradosso, il quale fa sì che “un consumatore online continua a valere molto meno di un consumatore offline”, è semplice. Il web – cito lo stesso Wolff – scoraggia in modo quasi maligno quel genere di attenzione sistematica, coordinata e concentrata sulla quale si fonda l’esistenza dei marchi”. Quell’attenzione che invece il pubblico continua a dedicare alla pubblicità in tv, e in generale sui media tradizionali. Anche perché “le inserzioni sul web non si sono sviluppate in quel modo raffinato, abile e mirato che caratterizza la pubblicità sugli altri tipi di medium”. Di conseguenza, ricorda Wolff, in mancanza di solide fonti di introito pubblicitario, Internet si è riempita di “contenuti-spazzatura” grazie a società che “hanno capito come l’unico modo di fare soldi in rete sia quello di spendere per i contenuti ancora meno di quello che gli inserzionisti sono disposti a pagare per la pubblicità” (e cioè poco, pochissimo, quasi niente).
Non poteva durare a lungo. E non è durata. Forse suona un po’ brutale affermare che negli ultimi due o tre anni qualcuno ha deciso che era ora di cominciare a fare soldi “veri”, e ha cambiato le regole di Internet. Di fatto, l’Internet aperta di cui Google è il simbolo perde terreno giorno dopo giorno (anche perché Google era l’unica a guadagnarci). E si affermano sempre di più i sistemi chiusi e ben più remunerativi che, pur usando la rete come mezzo di trasporto, costituiscono mondi a parte. “Fin dagli albori del Web commerciale – sintetizza Wolff – la tecnologia ha oscurato il contenuto. Il nuovo business model cerca di far sì che il contenuto – ovvero il prodotto – oscuri la tecnologia”. Non moriremo schiavi dell’Html, insomma. Ma di Facebook e dell’iPhone. A ciascuno il proprio destino.
(NT su ”La rivista”, Zurigo, novembre 2010)