Illusione e religione

Creato il 18 ottobre 2011 da Dailyblog.it @daily_blog

Di Gianni Pardo il 18 ottobre | ore 08 : 01 AM


La verità è qualcosa che tutti gli uomini desiderano ma lo stato d’animo con cui si la si ricerca non è privo d’importanza. Se il risultato ci è indifferente, come per l’analista il sangue dell’ignoto cliente, la diagnosi è obiettiva e normalmente affidabile. Se invece l’analista esamina il sangue di una persona cara, l’interferenza affettiva potrebbe anche falsare l’esito, in perfetta buona fede. Per questo i medici si affidano ai colleghi, se stanno male.

La verità è incolore e insapore se non ci riguarda, è piena di bagliori screziati se ci coinvolge emotivamente. Che un mazzo di prezzemolo presto appassisca e sia da buttare lo comprendiamo ed accettiamo con facilità, ma che lo stesso avvenga per le persone che ci sono più care ed anche per noi stessi ci risulta incomprensibile. Qui arriviamo piuttosto a credere qualcosa di cui non abbiamo la minima prova ed è anzi contrario all’esperienza sensibile: l’anima immortale. Il desiderio che le cose stiano in un certo modo è un inciampo sulla via della verità ed è anche “metafisicamente erroneo”. Noi siamo vivi e la nostra soggettività tende all’immortalità, non riusciamo a concepire di “non esserci”. Ma questo ci pone in contrasto con una realtà che arriva inesorabilmente alla morte. Dunque chi ama la verità deve contrastare la propria tendenza vitale all’ottimismo e credere piuttosto alla realtà che ai propri desideri.

La tendenza alla falsificazione non è infatti un fenomeno isolato. L’individuo, ogni volta che si trova a registrare un dato che lo riguarda, sembra chiedersi preliminarmente: mi piacerà se è vero o se non è vero? E sulla base delle sue preferenze cerca poi di stravolgere la realtà fino a farle dire ciò che desidera. Osservava Tucidide: “Nessun vincitore crede mai alla fortuna”. E questo significa, per converso, che nessun perdente accetta di esserlo per suo personale demerito. La colpa è della sfortuna.
La semplice deformazione prospettica non sarebbe grave se rimanesse un fenomeno intellettuale: purtroppo essa danneggia l’esistenza. Se i dati in base ai quali agiamo sono falsi, lo sarà anche il risultato dell’azione, perché la realtà è testarda. Ci aspetta come una roccia in fondo ad un rettilineo: o lì seguiamo la curva o ci schiantiamo contro un ostacolo che nemmeno si accorgerà di ucciderci.
Non tutti sono d’accordo, su questo. Molti pensano che l’illusione sia un grande conforto e riescono ad elevarla a sistema. Gli inglesi parlano di wishful thinking (pensiero desiderante), i romani più prosaicamente constatano che gli uomini “credunt quod cupiunt” (credono ciò che desiderano): e se nella versione inglese, c’è almeno la possibilità che si capisca che si prende per realtà una speranza, nel “credunt” latino è chiaro che si è persa di vista la realtà. Cosa che a molti, finché riescono a permetterselo, fa molto comodo.

In questo senso è paradigmatica la conversione di Chateaubriand. Da giovane era stato un illuminista come gli altri, poi ricevette una lettera della sorella che gli annunciava la morte della madre, resa infelice per giunta dal saperlo miscredente, e apprese nel contempo che anche questa sorella era morta. Le due morti pressoché contemporanee lo colpirono profondamente e si convertì. Come scrisse: “Non ho ceduto, lo confesso, a grandi illuminazioni soprannaturali; la mia convinzione è uscita dal cuore: j’ai pleuré et j’ai cru. Ho pianto ed ho creduto”. Con questo, aiutato dall’inarrivabile fascino del suo stile, lo scrittore bretone ha annullato decenni di critica razionale della religione, ha battuto Voltaire, si è alleato con Rousseau, ha creato lo schema del cristianesimo del XIX Secolo: una fede fatta di sentimenti più che di ragione.

Nessuno ha più avuto bisogno di teologia. A tutti, per credere che c’è un Dio che ci ama e ci segue come una madre premurosa, è bastato estasiarsi dinanzi ai colori del tramonto. E anche per credere che c’è tutta una realtà invisibile e consolatoria e una vita oltre la morte. La religione è passata, da mentalità razionale degli uomini colti a sentimentalismo vago e consolatorio. Da fede per cui morire ad accessorio della sensibilità, a obbligo di buona creanza, a moda del romanticismo. Ed ha guadagnato in superficie quello che aveva irrimediabilmente perduto in profondità.
Tutto questo è stato possibile perché gli uomini adorano illudersi e odiano i pensieri tristi. Chateaubriand piangendo avrebbe potuto altrettanto bene ritrovare la propria fede buddista o musulmana, l’effetto sentimentale sarebbe stato lo stesso.
La religione di troppi si nutre di auto illusione: questa tendenza falsifica un credo serio come il Cattolicesimo e lo degrada, per chi ci crede, a favola consolatrice, mentre autorizza i miscredenti a vedere certi cattolici come deboli di mente.
Questa fede era qualcosa di più, quando S.Tommaso contava più di Chateaubriand.

giannipardo@libero.it


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