Dopo averci illuso qualche settimana fa rispolverando a suo modo il concetto di sovranità, Ernesto Galli della Loggia (EGdL) pare colto da un nuovo sussulto critico ripensando al modo in cui sono state costruite le fondamenta e poi è cresciuta l’Unione Europea.
Non ostante la delusione sui suoi precedenti e a causa della mia inguaribile propensione benevola verso l’umanità tutta e i suoi individui, l’affermazione perentoria che “alla sua origine vi fu un atto di temeraria cecità geopolitica” mi fa trasalire speranzoso; quel barlume fioco diventa una lama di luce sottile quando EGdL afferma temerariamente che la Comunità originaria, composta da Francia, Germania, BENELUX e Italia, era Europea perché quei paesi erano “allora gravitanti nella sfera d’influenza degli Stati Uniti, non per altro”. L’incipit dell’articolo, una vera e propria abdicazione, avrebbe, però, già dovuto ricondurmi alla cautela.
Il suo occhio disincantato rivolto alle leadership politiche europee incapaci di ripensamento in quanto unicamente “impegnate come sono ad impiegare il proprio tempo unicamente nel rimbalzare da un vertice all’altro, indicato ogni volta come risolutivo e ogni volta, però, destinato a non risolvere nulla” muove una grave accusa; al tempo stesso si rivela, però, una resa giacché il nostro tace completamente sulla necessità e sulle possibilità inderogabili di costruire un ceto politico su basi ed interessi nuovi per ripiegare unicamente sull’aspetto culturale, rivolgendosi quindi unicamente “alle opinioni pubbliche, agli studiosi e agli osservatori indipendenti, dal momento che le leadership politiche europee lo evitano accuratamente”. Un impegno unicamente culturale, quindi, un punto di vista riduttivo, pertanto, tipico dell’accademico. Galli della Loggia, però, non è solo un accademico; è, soprattutto, un costruttore di opinione pubblica. Il suo proposito, a mio avviso, non rivela solo una visione riduttiva; nasconde qualcosa di ben più preoccupante.
- LA NASCITA DELLA COMUNITA’ EUROPEA OCCIDENTALE
Gli iniziali accenni storici agli eventi dell’ultimo dopoguerra aprono un ulteriore squarcio alla cortina fumogena stesa dall’editorialista. Secondo le sue tesi, la spinta americana a forzare la costruzione di una comunità europea che “cancellava di fatto almeno due aspetti decisivi: l’esistenza da un lato di un’«Europa mediterranea » (allora soltanto l’Italia, ma che con Spagna, Grecia, Portogallo, Malta e Cipro sarebbe poi divenuta una realtà di rilievo), e dall’altro di un’«Europa tedesca » incentrata sulla Germania ma in realtà estesa dalla Scandinavia all’Olanda, all’Austria, alla Slovenia”; “ due Europe con storie, società, tradizioni assai diverse” “unite sì da valori comuni, ma quasi quanto divise da conflitti” era dovuta al “sequestro da parte dell’Unione Sovietica dell’intera parte orientale del continente”. In realtà il “sequestro” dell’Europa avvenne da ambo le parti, ma con una netta prevalenza e sagacia tattica da parte americana. Gli Stati Uniti, per altro, avevano un problema ed una opportunità in più: quelli di regolare definitivamente i conti, da amico ed alleato, con le residue ambizioni egemoniche della Francia e della Gran Bretagna. La Germania occupata fu il fulcro che determinò la particolare soluzione dei conflitti. L’unificazione delle zone tedesche amministrate dai tre occupanti occidentali, determinò la definitiva chiusura del blocco orientale. Nel frattempo Stalin propose la creazione di uno stato tedesco unito e neutrale; gli Stati Uniti, da par loro, finanziarono generosamente la ricostruzione tedesca occidentale e sostennero l’ingresso della Germania Federale, a pieno titolo e con pari diritti e sovranità, nella comunità europea, alimentarono le divisioni tra Francia e Gran Bretagna, proponendo e ottenendo da quest’ultima un’alleanza privilegiata. Come si vedrà nel prosieguo, questo non fu il solo momento di totale coincidenza di interessi strategici tra Stati Uniti e Germania Federale in questi sessant’anni. Quello che gli Stati Uniti non riuscirono ad ottenere allora, con il fallimento, ad opera dei gaullisti e per altri motivi degli inglesi, della CED (Comunità Europea di Difesa) e della CPE (Comunità Politica Europea), fu il totale asservimento e annichilimento degli stati europei occidentali, in particolare della Francia, attraverso la creazione di un esercito totalmente integrato secondo direttive, comando, strutture e attrezzature americane e di una struttura statale europea elitaria, potenziale unica detentrice dei rapporti con l’America. Altro che “temeraria cecità politica”. Fu una scelta politica che ha garantito il successo americano per oltre sessant’anni, un tempo biblico, nei giochi geopolitici e che rischia addirittura di essere consacrato ulteriormente, visto il successo con cui sta proseguendo, in questi ultimi anni, il processo di integrazione delle strutture militari della NATO.
- LIMITI E CARATTERISTICHE DELL’UNIONE EUROPEA – LA SUPREMAZIA DELL’ECONOMICA
Il solito ritornello, puntualmente ripreso da EGdL, dei limiti del progetto europeo fondato su “un fragile mantello ideologico — l’«Occidente» —“ e su “una apparentemente più solida prospettiva generale, l’economia” rappresenta la classica realtà superficiale usata per nascondere piuttosto che per impostare un livello di analisi politica più profondo e meno epifenomenico.
Intanto quella economica non è stata solo “una apparentemente solida prospettiva generale”. Lo sviluppo economico impresso all’Europa Occidendale sino agli anni ’80 fu dovuto all’integrazione riuscita attorno al centro strategico americano di quegli stati in un perimetro ben delimitato dalla forza dell’altra superpotenza; al fatto che l’Europa fosse il centro del conflitto tra Stati Uniti e URSS, con un equilibrio sociale da mantenere per non pregiudicare la solidità delle alleanze geopolitiche; al fatto che, comunque, con gli accordi di Bretton Wood si riconoscesse ancora, in linea di principio, agli stati nazionali un ruolo di riequilibrio delle disparità economiche tra i vari paesi lasciando alle relazioni tra i singoli stati, in particolare agli USA, il compito di regolare concretamente quei principi. Un esempio classico del ruolo essenziale delle decisioni politiche nell’economia fu il mutamento del destino della Germania, alla fine degli anni ’40, da paese pastorale, secondo il piano Morgenthau, a paese guida nel processo di industrializzazione europea, secondo il piano Marshall. Il peso delle strategie nell’economia non si risolse solo nell’importante sviluppo economico e industriale. Una volta constatato che le forzature apertamente politiche e diplomatiche avvenute con la CED e la CPE provocavano rischiosi contraccolpi nazionalistici e sovranisti, gli americani e gli europeisti, ridimensionati e ridotti alla ragione i federalisti, optarono definitivamente per il metodo funzionalista elaborato nelle università americane e predicato discretamente da Jean Monnet, presso le varie diplomazie europee, sul quale si sono formati, sino ad oggi, intere generazioni di politici europei e funzionari della Comunità. Quel metodo consiste nell’introdurre surrettiziamente, praticamente per via amministrativa e con il rapporto diretto di una tecnocrazia europeista, legata a doppio filo con gli Stati Uniti, con i governi e gli stati nazionali europei e i loro centri di potere, livelli progressivi di integrazione che rendessero più o meno consapevolmente necessari ulteriori passi. Anche sulle modalità di applicazione di quel metodo ci furono vari scontri con i gaullisti francesi che da una parte spingevano, ad esempio, per una integrazione per settori verticali e i liberisti i quali, vincenti, propugnavano una liberalizzazione orizzontale dei mercati che lasciavano in realtà ampio spazio a politiche lobbistiche operanti nei meandri della burocrazia europea e delle varie amministrazioni statali che dovevano interpretare le direttive europee. In pratica i vari stati nazionali dovettero modificare, più o meno efficacemente in base al livello di sovranità e consapevolezza delle rispettive classi dirigenti, le modalità di difesa dei rispettivi interessi sotto la supervisione americana. Il retro pensiero era e continua ad essere che l’integrazione economica avrebbe costretto alla costruzione e integrazione politica europea.
Interrotta, quindi, quella “apparentemente solida prospettiva generale” dell’economia, verrebbe meno, secondo EGdL, uno dei capisaldi della costruzione europea e dell’attuale europeismo.
In realtà il primato dell’economia crea equivoci e fraintendimenti i quali nascondono in realtà sia il primato delle strategie dei centri strategici operanti attraverso i canali istituzionali sia il fatto che anche l’economia è percorsa da strategie, quindi politiche, che definiscono in maniera diversa la razionalità di utilizzo delle risorse e la concreta attuazione di essa.
Nella fattispecie, il primato dell’economia è servito a imporre in maniera subdola quelle sole scelte politiche limitate alla stretta osservanza atlantista e dipendenza dai centri statunitensi. La CECA (Comunità Economica del Carbone e dell’Acciao) nacque negli anni ’50, sotto l’attenta e invasiva supervisione della diplomazia americana, come una organizzazione tesa a programmare la produzione di materie indispensabili all’armamento della NATO con un accordo che mettesse fine alle latenti rivalità e contenziosi europei. La grande capacità dei paesi occidentali, a differenza di quelli del blocco sovietico, fu quella di trasferire anche nei settori civili i progressi accumulati.
Altre modalità più “politiche” e “statuali” avrebbero comportato una discussione più aperta, con un coinvolgimento più trasparente dei centri strategici, dei blocchi sociali e delle strutture statali; quali fossero i rischi reali di tali alternative, lo dimostrarono il fallimento della CPE e della CED.
Galli della Loggia in realtà, pur criticandolo, è vittima lui stesso del riconoscimento implicito di questo primato quando dice che “l’economia, sottoposta alle tensioni della globalizzazione, si sta rivelando un fattore assai più di scollamento che di unificazione”. Le dinamiche economiche, la globalizzazione economica stessa, sembrano processi indipendenti, con inesorabili leggi proprie le quali innescano inesorabilmente cicli più o meno radicali. La globalizzazione, in realtà, nasce da un atto politico, crollo del blocco sovietico, dal tentativo di integrazione nel blocco occidentale della Cina e della Russia, oltre che di altri importanti paesi, la cui piena realizzazione è fallita per un pelo negli anni tra il ’92 e il 2003 e dal tentativo di ricomposizione in atto di una area egemonica americana di gran lunga più estesa e meno omogenea rispetto alla fase bipolare. La crisi è scoppiata soprattutto per la scelta consapevole dei centri strategici maggioritari di Russia, in primo luogo, Cina e quindi di altri paesi di una politica di potenza più autonoma e di produzione delle risorse necessarie a sostenerla. In questo contesto, l’Europa e i suoi singoli paesi assumono un ruolo diverso, ma non secondario.
Nell’ambito comunitario, le scelte economiche hanno innescato processi differenziati nei vari paesi in qualche maniera governati dai singoli stati almeno sino a quando disponevano della quasi totalità delle loro prerogative. Sino a fine secolo, il momento in cui è scattata la piena attuazione degli accordi di Maastricht (introduzione dell’euro, limitazioni dell’intervento pubblico nelle imprese, ect), alcuni paesi (Irlanda, Austria), hanno utilizzato la concorrenza fiscale e la semplificazione amministrativa per industrializzarsi, la Grecia ha utilizzato le risorse per le infrastrutture e il mantenimento abnorme di ceti parassitari, la Spagna ha distorto la propria economia puntando prevalentemente sull’edilizia, l’Italia adottando politiche dualistiche di sviluppo della piccola e media industria e di alimentazione dei ceti parassitari, la Germania puntando sulla riorganizzazione dello stato, della distribuzione fiscale e sulla industrializzazione in settori medio-alti. Ogni paese europeo ha comunque effettuato scelte politiche più o meno consapevoli; non si è trattato di processi spontanei e di semplici scelte politiche di cornice, esterne alle decisioni economiche Basterebbe osservare il ruolo assunto dalle banche popolari e dalle casse rurali in Italia, dalle banche dei laender e dalle amministrazioni tedesche nel promuovere lo sviluppo dell’imprenditoria per intuire il peso delle scelte politiche. Venendo meno alcune delle leve fondamentali (sovranità monetaria, intervento diretto, ect), senza che esse siano riprodotte in uno stato europeo, del tutto utopistico nel contesto attuale, gli stati, soprattutto quelli meno propensi a salvaguardare l’indipendenza dei propri centri strategici e più predisposti al perseguimento di politiche di tipo compradore e parassitario si trovano in una situazione di debolezza se non di collasso con poche speranze di resurrezione.
Un esempio di come l’attuale Unione Europea sia lungi dal perseguire obbiettivi di sovranità ed autonomia di singoli stati se non di un futuribile Stato e Nazione Europei, lo rivela l’attuale dibattito sulla crescita economica, per altro estorto dalle bocche delle élites solo per la drammaticità della situazione.
La crescita economica sarebbe legata all’integrazione ulteriore con gli Stati Uniti, alla liberalizzazione totale delle relazioni economiche, pur con tutti gli equivoci e le mistificazioni di cui ho trattato in altri articoli, agli investimenti in infrastrutture e, secondariamente, all’incentivazione della formazione di imprenditoria, in particolare tutt’al più le “start up”, scimmiottando la mitologia della Silicon Valley; tutt’altra cosa rispetto alla formazione necessaria di un ceto imprenditoriale e soprattutto manageriale necessario ad una gestione ottimale delle risorse, quindi dell’economia, funzionale alle strategie politiche. Formazione che comporta un interventismo politico ben più aggressivo.
Le dinamiche congiunte di questi due processi accennati poc’anzi, mondiale ed europeo, hanno alla fine fatto scoppiare le contraddizioni nei paesi europei e nelle strutture comunitarie le quali si risolveranno con il cedimento della potenza regionale (cosa più probabile) o con un bel passo avanti verso il policentrismo. L’Europa, però, più che un attore di rango sembra ancora una volta un campo di battaglia
- LIMITI E CARATTERISTICHE DELL’UNIONE EUROPEA – IL MANTELLO OCCIDENTALE
Galli della Loggia conosce benissimo quale sia il collante ideologico indispensabile di questa costruzione: “il mantello occidentale”; “ finito lo scontro Usa-Urss, l’«Occidente» è divenuto una categoria sempre più evanescente”, così recita nell’articolo.
Jean Monnet, un personaggio che meriterebbe l’attenzione degli storici italiani, di gran lunga più importante di un Altiero Spinelli, da sempre sugli scudi dei dogmatici europeisti, sentenziò agli albori del processo unitario europeo: “costruire l’Europa dei cittadini contro gli Stati Nazionali”. Non precisò se si trattasse degli stati nazionali europei o, di per sé, dello stato come struttura istituzionale. I suoi legami mi farebbero propendere decisamente per la prima opzione. Di sicuro i centri di potere statunitensi di Roosvelt, Truman ed Eisenhower apprezzarono quel fervore universalistico diffuso in una Europa desiderosa di pace. Non potendolo irradiare verso il blocco sovietico, per evidenti rischi di ritorsione a sua volta irradiante, consapevoli che l’universalismo fosse già ben radicato nel sistema americano, senza arrivare a distruggerne, anzi grazie agli apparati di potere, decisero di assecondarlo con i tanti strumenti a disposizione sui prostrati paesi europei occidentali. Come fosse possibile creare una cittadino europeo senza un adeguato stato europeo completo di tutte le sue strutture e dai confini ben delimitati è un mistero che ancora deve essere svelato dai numerosi adepti di Monnet, scarsamente popolari nel tanto decantato popolo sovrano ed elettore ma molto ben radicati nelle strutture di potere a diretto contatto con i centri strategici.
A questo livello si compì un altro momento di alleanza strategica tra Stati Uniti e Germania, giacché la seconda vide nell’indebolimento degli stati europei occidentali la possibilità di contenere le conseguenze disastrose della recente sconfitta militare. La stessa enfasi, riservata a questa cittadinanza europea antitetica agli stati nazionali, portò a disarmare, in pochi decenni, il patrimonio culturale europeo di fronte alla forza e alla preponderanza del centro dominante.
Il metodo funzionalista, oltre ad aver una modalità operativa precisa e dei referenti privilegiati, aveva e continua ad avere una visione istituzionale chiara che si rivelò anch’essa un’ottima base per fondare una solida alleanza strategica su basi diseguali tra Stati Uniti e Germania: un’organizzazione regionale della Unione Europea ( l’Europa delle regioni) ancora una volta contrapposta agli stati nazionali. In questo anche i centri strategici tedeschi avevano da guadagnarci, soprattutto rispetto alla Francia, in particolare assecondando la propria visione “etnica” dello stato nazionale. La Germania, per la posizione geografica e per le vicende politiche legate alle due guerre mondiali, aveva la popolazione di madrelingua più dispersa e frammentata tra i vari stati europei. La politica europea delle regioni, con il conseguente riconoscimento dei diritti delle minoranze, dell’autonomia amministrativa, dell’indebolimento degli stati nazionali ha consentito al paese che più ha sofferto dell’esito dei conflitti di ricostruire i rapporti con le minoranze tedescofone in Europa e con le comunità storicamente legate ad essa. La caduta del muro di Berlino con la conseguente estensione della Unione Europea a quasi tutto il continente, la guerra nei Balcani poi sono stati due momenti essenziali di conferma della coincidenza di interessi e strategie tra Stati Uniti e Germania con quest’ultima che, specie nella seconda occasione, ha forzato le incertezze della potenza dominante.
Con celato aristocratico scetticismo EGdL continua, quindi, nella sua accusa di “cecità geopolitica” che ha portato a “occultare” e rimuovere l’esistenza di due Europe, “più disgraziatamente quella balcanica” sino a mettere in discussione la validità stessa della rappresentazione unitaria del continente. Europe “unite sì da valori comuni, ma quasi quanto divise da conflitti: con la differenza, però, che i primi erano patrimonio quasi esclusivo di ristrette élite, mentre i secondi, invece, avevano radici vastissime e profonde” .
L’unità elitaria di quei valori comuni era rappresentata, in realtà, dall’aristocrazia ancora regnante nell’Europa dell’ottocento, da ceti decadenti che subirono, anche nel loro paese, i contraccolpi della formazione di collettività nazionali stridenti con i loro legami universalistici dinastici. Le correnti di pensiero che attraversarono l’Europa, in primo luogo il romanticismo e il positivismo, non furono movimenti elitari, ma correnti di pensiero che delimitarono il confronto e il terreno di battaglia delle borghesie e degli stati nazionali e la formazione delle nazioni; come il benevolo confronto, anche il conflitto, compreso quello militare, ha bisogno di un terreno e di un linguaggio comuni.
Più che cattiva costruzione, l’attuale Unione Europea è il campo costruito ad arte, secondo le contingenze, in cui stati più forti, in particolare gli Stati Uniti e poi la Germania, e stati più deboli si confrontano definendo gerarchie, aree di influenza e alleanze tra vari centri presenti nei vari paesi; più il ruolo di questi stati è residuale, più è debole amministrativamente, più i vari centri si legano con quelli delle potenze dominanti in maniera scomposta.
La conclusione dell’articolo di Galli della Loggia è il sintomo di questa scompostezza e di questo disorientamento dovuto al condizione di chi deve seguire un canovaccio scritto da altri.
Con sorprendente rimozione della storia EGdL sentenzia: “in Europa la democrazia non è una pianta autoctona”. L’accademico dimentica inopinatamente che la Germania Guglielmina introdusse per prima il suffragio universale e lo stato sociale non ostante l’agiografia dei vincitori la presentasse come una dittatura fondata sulla miseria; che la Francia repubblicana e democratica sia stata la principale fomentatrice del primo conflitto mondiale.
Verrebbero a cadere due assiomi su cui poggia l’attuale spirito democratico occidentale: che la democrazia occidentale è incompatibile con l’autoritarismo e che la stessa è incompatibile con il militarismo guerrafondaio.
Due assiomi indispensabili a giustificare e legittimare l’interventismo e l’egemonia americana e a mascherarne le malefatte.
Per arrivare a questo, Galli della Loggia deve far sfoggio dei peggiori luoghi comuni dell’antropologia, legati alla persistenza astorica perché millenaria, di legami feudali, miseria, clientelismo e quant’altro il buon senso reazionario è in grado di rimuginare piuttosto che alle condizioni di subalternità che storicamente si perpetuano e che i ceti dominanti locali prevalenti e quelli delle potenze egemoni si premurano di perpetuare.
Al nostro, alla fine, non resta che la missione “di spiegare queste cose ai nostri amici europei, ai nostri amici tedeschi” a loro volta vittime e carnefici un po’ meno troglodite, così come si desume dalle tesi. “ Sia chiaro: non per invocare impossibili indulgenze (con la mafia e la corruzione, per esempio, dobbiamo solo impegnarci più che mai a farla finita), ma per ricordare che in Europa la democrazia non è una pianta autoctona. Per radicarla c’è stato bisogno qualche volta di un deficit di duemila miliardi, altrove il prezzo è stato Auschwitz, quasi dappertutto è stato necessario il vento d’oltreoceano”; si tratta, quindi, soprattutto di confidare nella pazienza e nella comprensione, di chi ha “imposto” la democrazia a popoli non del tutto maturi. Il problema che il benefattore ha imposto i propri valori sia con la sua democrazia rappresentativa che con il pugno militare e apertamente dittatoriale, secondo le opportunità e contingenze, non pare tangere il nostro folgorato. Se EGdL parlasse di democrazie, piuttosto che della DEMOCRAZIA, sarebbe probabilmente più indotto a individuare le forze di rinnovamento nel proprio paese e a individuare nuove modalità di costruzione europea che non prescindano dalle conquiste conseguite, in particolare gli stati nazionali. Certo gli costerebbe qualche rinuncia personale.
Un atteggiamento che accomuna purtroppo accademici qual è Galli della Loggia a tecnocrati, quale è Monti, nella loro sufficienza e nel loro disprezzo della gente che dicono di rappresentare; che ne connota la fisionomia al pari di un vero e proprio ceto nefasto per l’avvenire del paese.
Messi, lo spero vivamente, a mal partito e non avendo l’ardire di sozzarsi le mani, sono sicuro che oltre che a confidare nella comprensione e nella pazienza dei loro protettori, saranno pronti ad invocare la ferma determinazione di questi; ovviamente per il bene degli stessi fustigati irriconoscenti. Sappiamo di cosa sono capaci “i nostri” quando arrivano.
Quali siano i loro protettori pare averlo capito anche la Merkel, pur con qualche irritazione malcelata; ma solo perché il tempo della coincidenza totale di interessi con il partner americano pare in fase di esaurimento come si è spento il suo sorrisetto stampato al momento della defenestrazione di Berlusconi e della nomina di Draghi alla BCE. Dovrà accontentarsi di un ruolo regionale ben delimitato da condividere su altre sponde magari con la Turchia oppure iniziare a recidere le catene, con qualche dolore sulle piaghe di una costrizione settantennale, ma isolando una volta per tutte le fonti di infezione.