Anna Lombroso per il Simplicissimus
Allora, pare proprio che in un paese fiaccato dall’evasione, dalla corruzione, dall’incompetenza, dall’infiltrazione della criminalità organizzata in ogni settore della società e dalle contiguità e correità con larghi strati dell’economia, della finanza, della pubblica amministrazione della politica, il vero cancro italiano invece sia la magistratura, l’uso politico della giustizia, i giudici rossi, e della loro ossessione perversa di applicare le leggi, inutili ostacoli alla libera iniziativa, all’imprenditorialità, alla concorrenza e allo sviluppo più profittevoli.
Deve essere stata così persuasiva questa convinzione corrente che ieri nel corso delle manifestazioni indette dagli operai “messi in libertà” – adesso si chiama così l’infamia cacciata di 1400 lavoratori da parte della famiglia Riva – l’abbiamo sentito dire da qualche neo-liberato, che si lamentava di pagare di persona la decisione del tribunale di sequestrare i beni della criminale dinastia dell’acciaio, accumulati sulla pelle e la vita dei dipendenti e dei cittadini.
Eh certo, un’acciaieria non è un salotto, ha detto qualcuno. Fumi e polveri sono un effetto “naturale”, lavorarci dentro è faticoso e pericoloso eppure è stato il sogno di varie generazioni in Puglia e altrove: all’Italsider si è forgiata una classe operaia, il salario ha permesso a molte migliaia di persone di mandare i figli all’Università, di comprare l’automobile e la casa. Ma da tempo si sa che il maggiore benessere è stato pagato da un crescente inquinamento, dalla comparsa di malattie, alcune mortali. E si sa altrettanto bene che è possibile produrre acciaio con un minore inquinamento e con minori danni per la salute, abbattendo una parte dei fumi, delle polveri e delle sostanze nocive. Ma si tratta di misure che comportano un incremento dei costi di produzione, minori profitti per l’imprenditore, sia esso un padrone pubblico, come lo Stato ai tempi dell’Italsider, sia esso un padrone privato come dopo la vendita dell’Italsider trasformata in Ilva.
Così è diventata più sofisticata la tecnica del ricatto come sistema di governo delle relazioni industriali e della politica: davanti al pericolo della perdita del posto di lavoro si è formata un’alleanza aberrante fra lavoratori inquinati, popolo inquinato e imprenditori inquinatori, con l’altrettanto innaturale connivenza degli amministratori e dei rappresentati locali e di governi che dal 1961 in avanti avrebbero dovuto scegliere una migliore localizzazione dell’impianto, una differente pianificazione dei quartieri residenziali. Ma che, soprattutto, avrebbero dovuto imporre agli imprenditori, prima pubblici e poi privati, i miglioramenti di processo, esercitare le attività di sorveglianza, il pagamento delle bonifiche e del risanamento, e obbligare al rispetto di norme e leggi, quelle che oggi – tardivamente e contro tutti – cercano di applicare i tribunali, ridotti alla chiusura di stalle tossiche dopo che anche l’ultimo bove è scappato o è morto avvelenato.
Mentre la famiglia Riva svaligiava come un ladro poco gentiluomo la cassaforte dell’Ilva trasferendone le risorse a un labirinto di società industriali e finanziarie, nominava di Bondi Ad, lo stesso che il governo poi nomina commissario, mettendo patrimonio societario e famigliare al riparo dalle spese di risarcimenti e bonifiche.
Ancora nessuno sa con certezza cosa si celi sotto l’Acna, che cosa sotto Bagnoli o sotto l’Enichem di Manfredonia, quali tremendi cimiteri ambientali stiano contaminando il bel paese e continueranno a farlo per anni. Ma possiamo immaginare che se l’Ilva venisse smantellata o de localizzata secondo la pratica attuale del “prendi le macchine e scappa” si scoprirebbe quale irrecuperabile discarica venefica si nasconda nelle viscere di Taranto, redenta preventivamente da leggi ad aziendam, dalla credulona indulgenza con la quale sono state accolte le analisi che vantavano risultati brillanti nella riduzione di inquinamento e perfino di malattie, attribuiti all’Aia, ed effetto invece del delle produzioni, proprio come succede per la diminuzione delle morti “bianche”.
Mica penserete quindi che la guerra mossa alla Costituzione non si svolga anche su questo campo di battaglia? Che non intenda dichiarare ufficialmente che, insieme alla sovranità dello Stato, al ruolo del Parlamento e della rappresentanza, alla limitazione ragionevole dei poteri presidenziali, è obbligatorio concludere il tempo dei diritti sancendo la contrapposizione dei due fondamentali: quello al lavoro e quello alla salute? E che questo non voglia consolidare il principio che garanzie, prerogative conquistate e diritti costano e che la necessità nutrita e alimentata ad arte, ne giustifica la doverosa e ragionevole rinuncia? E che questa abdicazione si deve accompagnare all’estensione della precarietà, caposaldo della “loro” crescita anche alla giustizia, alle leggi, alle regole per ratificare l’opportunità e la legittimità delle licenze, dei condoni, dell’”indulgenza”, degli scudi, delle semplificazioni, degli snellimenti, fino all’illegalità, come indispensabile e inevitabile motore di sviluppo e di prosperità?
Una volta il sangue che scorreva imbrattava campi rigogliosi e battaglie cruente si svolgevano sotto sereni e indifferenti cieli azzurri. Questa guerra che è mossa contro popoli, cittadinanza e democrazia si consuma sotto cieli che non sono nemmeno più blu.