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Imany: Il disco giusto per riempire anche le notti d’estate. Recensione di Fabio Fiume.

Creato il 17 settembre 2013 da Halixa @Halixa

imany

Accadeva esattamente 25 anni fa! Per la serie :”corsi e ricorsi storici”, correva l’estate 1988 quando nel bel mezzo di un calderone musicale di pop plasticoso e primi albori di una house, che da li all’estate successiva prese per qualche anno il sopravvento, emerse una voce cupa, piena, quasi maschile; era Tracy Chapman e del suo omonimo disco d’esordio, così fuori dal contesto, ispirato ai cantautori degli anni 70, con accenni politici e di posizione nemmeno troppo accennati, si riempirono ben 30 milioni di case nel mondo. Ed oggi, anche se con un numero notevolmente diverso, (ahi noi al ribasso!) succede di nuovo; succede che nel mezzo di brani da villaggio vacanze, di dance ispirata ( vedi i Daft Punk ) o di tronfie esplosioni di suoni martellanti ( Guetta, Will .i.am e simili ) ti sbuca una francesina, originaria delle isole Comore, tale Imany, che prima di regalarci un disco soave e contro la corrente dei rumori, aveva bazzicato i mondi dello sport e della moda. Oltre che la scelta di stile in comune con la Chapman, Imany ha anche questa bella voce cavernosa, di una sensualità inusuale per una donna, messa al servizio di questo “The shape of a broken heart” , arrivato in Italia solo adesso, ma edito nel 2011 oltralpe. Conquistare tutti con la soffice ballata “You will never know” era cosa semplicissima, ma riuscire a ripetersi con un album intero non era poi così scontato. Ed invece da qualche settimana a questa parte “The shape of a broken heart” presenzia stabilmente tra i primi 20 album della settimana, veleggiando intorno alle 15.000 copie vendute ( il singolo è ad un passo dal doppio platino ) e se accuratamente promosso, c’è da scommetterci supererà con scioltezza anche lo scoglio delle tante uscite autunnali. Perchè all’interno dell’album trovano spazio brani come “Grey monday”, con un piano di apertura che gode di sensazioni figlie di un mondo black, tra Alicia Keys e dintorni, oppure l’indovinata “I’ve gotta go”, posta tra l’altro quasi a fine tracklist, come a dimostrare che tutto il disco merita ascolto. Mentre in “Where have you been”, ci si immagina un non ritorno (“ho spesso fantasticato che tu non tornassi mai. Ho detto addio ai tuoi vestiti, alle tue foto, alla tua roba… sperando di non doverti più incontrare” è nell’apertura di “Slow down” è fedele immagine sonora di cosa si ascolterà per tre quarti d’ora, tra strumenti essenziali trainati da chitarre acustiche e percussioni calde. Nessuna traccia di questo esordio di Imany merita il passaggio fugace alla successiva ed allora c’è solo da sperare che la cantautrice francese non segua in tutto e per tutto l’illustre esempio qui proposto come paragone, poichè Tracy Chapman non ha mai più ripetuto il suo capolavoro, diventando in fretta una cantante di nicchia. Auguriamoci che “The shape of a broken heart” non sia solo lo stupore di un’estate in cui volevamo anche qualcosa di diverso, qualcosa che scaldasse le notti, dopo esserci sbattuti tra spiagge e mare di giorno.
Otto.



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