Alla fine dei conti dobbiamo riconoscere i nostri limiti, la nostra visione dell’Africa è ancora sublimata da un’aurea post-coloniale paternalistica. I miti acquisiti durante lo studio del continente, soprattutto quelli effettuati durante il diciannovesimo secolo, hanno plasmato gli stereotipi che tuttora continuano a caratterizzare la visione che noi occidentali abbiamo del continente.
Nella nostra visione c’è la volontà, alcune volte inconscia, a voler vedere l’Africa come un continente fermo nella sua struttura sociale, immobile nei cambiamenti economici. Sicuramente sotto alcuni aspetti, la cultura rurale è ancora ancorata a tradizioni ancestrali, ma dobbiamo considerare che proprio il nostro coinvolgimento nelle faccende africane, a volte, ha creato queste distorsioni, o comunque ne ha rallentato se non bloccato lo sviluppo. Come già detto, la prima vera ferita del colonialismo, ancora prima che il problema economico, è la fossilizzazione culturale che ha generato nei popoli sottomessi. La cristallizzazione delle strutture già esistenti, era uno dei punti chiave delle amministrazioni coloniali. Essendo sempre stato minoranza, il ceto dirigente proveniente dall’Europa, cercava di bloccare i cambiamenti e, quando concedeva una delega del potere politico o economico, cercava sempre di consegnarlo alle minoranze presenti nel territorio, così da non creare una elitè locale mai numerosa. Questo stratagemma serviva a non formare una massa di persone capace di ribellarsi ai colonizzatori, una riedizione contemporanea della vecchia regola romana “divide et impera”.
Per tornare al tema principale, la nostra visione ed azione nel continente ha sempre avuto, tranne piccole eccezioni, una visione paternalistica degli aiuti; l’equazione è uomo bianco persona buona e ricca che porta la civilizzazione al nero cattivo povero e rozzo. Quasi mai si parla dei problemi con le popolazioni locali, il più delle volte i progetti umanitari vengono pensati da occidentali in occidente, senza tenere conto degli africani e dell’Africa. Detto questo, esistono buone prassi ormai consolidate anche da parte di organizzazioni occidentali, senza dimenticare che questo problema è ricorrente anche nei recenti aiuti da parte di paesi non occidentali.
Ma la visione mistica, non si esaurisce solo a livello politico o economico; esiste un immaginario africano anche da parte dei turisti. Sono due i modelli di visitatore tipo: troviamo così il turista relax che ricerca una vacanza a basso costo, dall’altra parte il mistico chi è in ricerca della “vera Africa”.
Avete provato ad osservare il risultato di questi due tipi di persone? Troverete una somiglianza, il primo tipo scatterà foto solo durante i safari, escludendo il più delle volte le altre realtà, perché di non interesse; il secondo fotograferà solo paesaggi ritenuti africani, scartando le realtà considerate non autentiche. Una visione completa della società africana, è quindi esclusa a tutte e due le tipologie.
L’esempio più calzante sono le foto fatte durante la visita ai villaggi. Perché, se nel primo caso non avviene neanche il contatto con questa realtà, nel secondo si può notare che, si tende a non fotografare i pezzi di plastica sparsi tra le capanne, come se la plastica non facesse parte dell’odierno paesaggio africano. Come nel resto del mondo, anche nel più sperduto villaggio africano è arrivata la plastica, sotto forma di taniche, recipienti di vario genere e l’immancabile sacchetto che sta letteralmente invadendo, ed inquinando, il paesaggio.
Questa è l’Africa, coi suoi mutamenti e tradizioni, è che ci piaccia o no un insieme molteplice e complicato di culture e inciviltà, problemi e soluzioni, bellezza e degrado, l’amore più alto e le barbarie più atroci; il tutto è inscindibilmente unito e la visione di una sola parte non rappresenta la totalità, cioè quella il più delle volte rappresentata negli stereotipi culturali.
pbacco