Immagini shock: che effetto hanno su di noi?

Da Quipsicologia @Quipsicologia

Chi non è mai stato affascinato da un film dell’orrore, incuriosito o ipnotizzato dalle immagini shock dei telegiornali? Ma l’ambivalente piacere che ci procura la sofferenza altrui può definirsi davvero compensatorio della nostra aggressività repressa?

Esiste un sottile piacere legato alla paura e alla visione di immagini shock o di situazioni drammatiche. Già i greci lo avevano capito prima di noi ed è grazie a quel misto di paura e piacere che ci procura lo spettacolo della tragedia che lo spettatore si libera dalle sue paure. Nella nostra epoca, i film dell’orrore fanno il pieno al botteghino, i videogiochi di violenza sono i più amati dagli adolescenti (e non solo…), e le notizie di drammi personali e catastrofi collettive al telegiornale ci garantiscono la razione giornaliera di orrore, tra massacri familiari e disastri naturali.

In un certo qual modo, assistere alle tragedie altrui serve a rassicurarci visto che “capita a loro e non a noi” e, come dice il proverbio “mal comune mezzo gaudio”, ci  conforta nella nostra limitatezza, vulnerabilità e nelle nostre insicurezze. Ma è veramente così?

Quale funzione hanno le visioni di immagini shock?

È interessante comprendere quanto la loro funzione sia legata soprattutto ad un tentativo di liberazione della nostra aggressività. Basta infatti tornare indietro nel tempo (un milione di anni fa, ma anche meno) per ricordare che gli esseri umani si sono evoluti in un mondo naturale non troppo ospitale ed hanno avuto bisogno di tutta la loro aggressività per sopravvivere di fronte a pericoli e minacce di ogni genere. Ed oggi invece, almeno per quanto riguarda l’Occidente, prevale un adattamento mentale alla realtà in cui l’aggressività è messa al bando: in un certo qual modo essere aggressivi è diventato socialmente riprovevole, tranne naturalmente in situazioni particolari in cui è consentito. Questo però comporta l’inibizione mentale e culturale di una naturale pulsione umana, che da qualche parte deve pur essere espressa. Ecco che l’aggressività che ci possiamo permettere di esprimere passa soprattutto attraverso le immagini e il piacere che ne riceviamo. Non si può affermare però che film, videogiochi, telegiornali, hanno una funzione compensatoria rispetto all’aggressività di cui sopra, perché si tratta per lo più di rappresentazioni e il corpo viene comunque ignorato. Da questo punto di vista, sono certamente più compensatorie il pugilato, la lotta, il karate… ma solo per chi li pratica. Altrimenti si rimane nel campo delle rappresentazioni: il punto sta che la nostra aggressività non viene agita a livello fisico e rimane quindi compressa.  Per cui vivere la paura solo in modo virtuale non mette in gioco il nostro corpo e dunque non ce ne libera.

Che reazioni abbiamo di fronte alle immagini shock?

Di fronte alle immagini di violenza, di qualunque natura siano, abbiamo diverse reazioni. Accanto a chi le rigetta, c’è chi ne resta indifferente o ne è addirittura attratto. Nella maggior parte dei casi, l’apparente indifferenza è il risultato di una sorta di vaccino, di mitridatizzazione (da Mitridate, re del Ponto, che assumeva ogni giorno una dose sempre maggiore di veleno per immunizzarsi) che alcune persone mettono in atto senza rendersene conto, senza consapevolezza alcuna. Imparano a farsi scorrere addosso le cose, non perché manchino di sensibilità, ma perché rimuovono quello che causa loro angoscia (meccanismo di difesa psicologica per eccellenza).

Differente è il discorso di coloro che sono attratti dalle immagini più cruente. In questo caso il meccanismo che scatta in loro è molto simile a quello che fa si che molte persone siano affascinate dalle scene dei delitti o degli incidenti. Basta pensare alle file che si formano per esempio per strada quando avviene un incidente grave. Sono per lo più le persone curiose che si fermano a guardare ciò che è accaduto e magari se c’è “scappato il morto”. Si tratta di persone con una forte componente voyeuristica nelle quali la vista di scene truculenti o di distruzione fanno scattare la sindrome del naufrago, che prova piacere nello stare a guardare la nave che affonda essendo già approdato, e quindi in salvo, sull’isola sicura. Questo può sembrare un piacere un po’ perverso, ma in realtà è un meccanismo di difesa diffuso che ci permette di cogliere il lato migliore della nostra situazione in confronto a ciò che accade al di fuori di noi.

Chi invece sceglie la via della fuga, evitando accuratamente di guardare immagini che possono disturbare il suo equilibrio, è utile chiedersi quali paure possano celarsi dietro questo rigetto, questo atteggiamento difensivo. Anche perché si può spegnere la tv, ma i fatti restano, le immagini shock sono sempre là pronte ad aggredirci. Evitarne la rappresentazione significa infatti non affrontare e non metabolizzare  i contenuti e le emozioni che ne scaturiscono. Anzi, chi pensa di salvaguardarsi vivendo sotto una campana di vetro, è proprio colui che poi soffre maggiormente di fronte alla crudeltà, alla violenza, perché in un certo senso non ha sviluppato gli strumenti per elaborarle e poterne così prendere consapevolmente le distanze.


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