Immemore ma non troppo

Da Icalamari @frperinelli


L’altroieri sono andata in libreria per la terza volta in tre giorni, ero con Lola, lei aveva risposto al telefono il giorno prima, non riesco a ricordare in quale occasione abbiano abbinato il suo numero al mio nome ma soprattutto perché mai ogni volta che arriva un libro che ho ordinato chiamino lei  invece che me, visto che ogni volta lascio i miei recapiti, anche se li dovrebbero avere, i miei recapiti, da tempo immemorabile, sono anni che ordino libri in quella libreria, però è corretto: se è immemorabile, è normale che non lo ricordi, il tempo, e tutto quello che ci si è svolto in mezzo.

La volta precedente avevano mandato un dipendente in magazzino, dicendogli di controllare nelle casse che erano arrivate, ce ne dovevano essere anche del Saggiatore, e quasi mi era preso un dejà vu, ma senza il senso di straniamento che di solito accompagna i dejà vu, infatti ero certissima che una scena molto simile si fosse svolta esattamente il venerdì prima, la volta che avevo ordinato il libro e avevano mandato in magazzino un dipendente, mi pare fosse sempre lui, non ne sarei troppo sicura, d’altra parte anche il tempo che non scorre immemorabile lo scordo lo stesso quasi per intero, e questo accade pressoché da subito, specie riguardo ai dettagli, e mi dico ogni volta che dovrei prendere più spesso appunti, invece non lo faccio mai, preferisco vivere (ancorché immemore).

Io intanto sbirciavo le nuove copertine, e quando il dipendente della libreria ha fatto capolino, quella seconda volta, dicendo che il libro non era ancora arrivato e aveva innescato un piccolo bisticcio sottovoce col proprietario, o il figlio del proprietario, o forse un altro dipendente, dalla sicumera che sfoggiava avrei detto tranquillamente che fosse il figlio del proprietario (conosco il proprietario, e anche la moglie, negli anni hanno provato a consigliarmi libri come prescritto, immagino, nel “decalogo del buon librario di una volta”, ma già  non davo loro più retta dopo i primi consigli fallati, ricordo un primo Zafòn che chissà che avrebbe dovuto dirmi, e invece mi causava una incalzante nausea a ogni paragrafo, tanto che ancora oggi quando qualcuno mi dice che ha trovato bello Zafòn, devo guardare fisso l’orizzonte e cercare di pensare ad altro), avevo già per le mani un tomo bellissimo, considerato il titolo: “Osa pensare. Venti concetti per capire criticamente e apprezzare la modernità” di James R. Flynn, con prefazione di Gilberto Corbellini,e niente, davanti a un How to con un buon titolo non arretro mai.

(In realtà non avrei dovuto acquistarlo, in realtà io dovrei leggere meno e occuparmi più della terza stesura del mio libro, che se viene come promette sarà un successo, peccato che ho una specie di blocco non da mesi, ma da anni, come mi avvicino alle ultime bozze devio subito verso qualche distrazione.)

Ma ho tanto da fare, ieri ci ho scritto pure una poesia su quanto mi fa comodo trincerarmi dietro al fatto che ho tanto da fare, causata dal fatto che i miei vecchi amici ritrovati, che hanno anche loro da fare, almeno quanto me, si stanno prendendo di nuovo una pausa di riflessione, un po’ come quando tanti anni fa il mio ragazzo, uno di loro, mi lasciò e io mi chiusi in casa dicendo a tutti che avevo molto da fare e nessuno di loro venne più a bussare alla mia porta, finché, tanti anni dopo ho aperto la porta e li ho ritrovati tutti lì davanti, identici, come se fosse passato appena un giorno e si fossero ricordati all’improvviso di venirmi a chiamare per passare un po’ di tempo insieme, compreso il mio ragazzo di allora -ma l’ho considerato bene, specie la prima sera che ci siamo rivisti, al ristorante (dopo abbiamo fatto una festa danzante in casa, un percorso fitness natalizio in pineta, una serata in discoteca, un aperitivo e un caffé) e mi è stato lampante che, no, per lui non provo più l’ombra di un sentimento, nemmeno un tiepido rancore, che tristezza-.

Però non l’ho messa sul blog, la poesia, perché più che una poesia era un lamento e io detesto che mi si senta lamentarmi, mi piace invece che si pensi a me come una persona che ispira, per non dire del fatto che ogni volta che sospiro si avvicina solo gente piena di guai, tutto il contrario di quelli che mi piacerebbe frequentare, persone positive, come lo sono i miei amici ritrovati ora scomparsi ancora, ma che credo che torneranno, magari tra tanti anni, comunque sono quasi sicura che ritorneranno.

Il giorno successivo alla seconda volta, benché avessi il chiodo fisso di ritirare il libro, avevo avuto talmente tanto da fare, compresa la prima discesa in palestra dopo l’intervento (discesa perché la palestra in cui vado ad allenarmi si trova nei sotterranei di una chiesa, e io mi domando come facciano a pregare quelli che stanno sopra, dato il volume alto della nostra musica, e mi domando pure se l’umidità che affiora dai muri trasporti i percolati di qualche sepoltura, magari collocata, come una volta si usava, sotto il pavimento delle sacre navate), da scordarmi di passare in libreria e nel tardo pomeriggio la libreria aveva chiamato Lola, che aveva preso appunti sotto il mio sguardo curvo a mo’ di punto interrogativo, me li aveva riferiti a telefonata chiusa e aveva aggiunto anche, con sarcasmo, “Com’è, è bello avere una segretaria?” e io avevo pensato che una come Lola è una vera amica, non capisco che ci faccia accanto a me, ma intanto lei davvero c’è sempre, nella buona e nella cattiva sorte, e io me la tengo stretta, e ogni tanto la ricambio.

Per non dimenticare più ho messo un promemoria sullo smartfono, e il giorno dopo ho preso sottobraccio Lola e l’ho portata ancora in libreria, e che che sole c’era, e noi ridevamo sulle strisce pedonali, mentre qualcuno cercava di agganciarci con lo sguardo da lontano e poi più intensamente mentre ci avvicinavamo al marciapiede, e noi lo incrociavamo che ridevamo ancora e, almeno io, non lo guardavo: io, a meno che non abbia voglia di scherzare, con la gente tengo sempre gli occhi bassi, lezione di mia mamma: che non si facciano venire strane idee.

Poi, in effetti, non è sempre così, però io guardo solo chi mi va di guardare.

Tra noi e l’ingresso baciato dal sole c’era da fare lo slalom, tante erano le persone che stavano in mezzo, compreso uno strano vecchietto con una scoppola strizzata tra le mani giunte al petto, che ha strabuzzato i suoi occhi asimmetrici piuttosto sbulbati e si è sporto verso di me gridando: “Maria! Ciao Maria!” Capirai, io ancora ridevo da prima, ho risposto “Heilà, ciao!” come se lo conoscessi e intanto trainavo con me il braccio di Lola verso l’obiettivo a due ante distante due metri da noi, ma il vecchietto ha insistito: “Quanto tempo! E come stai, Maria?” “Bene”, ho detto, risoluta nel passargli accanto, “Fermati un momento, vai sempre così di fretta…” sono state le ultime parole che gli ho sentito dire, varcando la soglia della libreria e lì per lì ho pensato che avrei dovuto appuntarmelo, quel bizzarro incontro, ma c’è stata la spedizione del commesso in magazzino e poi mi hanno consegnato il libro che avevo ordinato, che aveva la copertina tale e quale a quella che aveva fatto circolare l’Autore e la sua casa editrice pochi giorni prima dell’uscita, e anche il giorno stesso, e io ero così emozionata a trovarmelo davanti che ho scordato il proposito di poco prima.

Per fortuna stasera, era buio e andavo di fretta, mi sono passate davanti agli occhi due turiste, sembravano una la miniatura dell’altra, forse erano madre e figlia, la stessa corporatura tozza, la camminata sguaiata, la coda di cavallo tirata sulla stessa testolina tonda, e una delle due indossava un vestitello estivo rosso sbracciato e senza calze, mentre io mi stringevo il bavero del cappotto nel vento fresco, che in questi giorni sono pure raffreddata, e ai piedi aveva delle ciabattine infradito da piscina, le ho seguite con lo sguardo attraversare la strada, viravano decisamente verso il fruttivendolo, che le aveva attratte come fosse stata una vetrina di Bulgari, dal che ho dedotto che probabilmente venivano dall’est Europa, non per altro, ma solo da quelle parti si dà ancora valore alla frutta, e mentre mi imponevo di tirare fuori il taccuino mi sono ricordata dell’altro bizzarro incontro, e soprattutto che avevo qualcosa di più importante da dire, ecco cosa:

Ho con me “Stati di Grazia”, il secondo libro di Davide Orecchio*, ne ho già letti un paio di capitoli, sì lo so, vado a rilento ma non ho molto tempo da dedicare ai libri, sono davvero tanto indaffarata, però ho capito subito che è un capolavoro, al punto che me lo porto in giro su e giù per la città e appena posso lo leggo, immemore di tutti e di tutto ciò che mi circonda.

*prima o poi arriverà la recensione


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