Immigrati: l’Italia civile è un film

Creato il 12 settembre 2011 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

È contento Crialese, sono contenti i critici: “ l’immigrazione, per il Cinema italiano, è divenuto un genere in sé”. È contento Diamanti “è difficile, impossibile, trovare, in Europa – e altrove – un’attenzione tanto acuta – quasi ossessiva – come quella espressa verso gli stranieri dal Cinema italiano”. Sono contenti tutti, capace che è contento anche Maroni. Si mentre abbiamo qualche difficoltà a razzolare bene, sul parlare e anche sul filmare siamo imbattibili.
Dice Diamanti “ Per quanto animata da sentimenti “civili” e solidali, l’Italia non riesce a dissimulare il disagio diffuso, in un Paese di emigranti dove l’immigrazione è giunta all’improvviso. Ed è cresciuta, in poco più di dieci anni, del 1000%”.
Insomma secondo Diamanti anche noi, pur non “vantando” un passato coloniale, saremmo affetti da quel senso di colpa che si muove tra rimorso e eurocentrismo, così ben diagnosticato da chi ha avuto un impero e non ha dovuto andato a cercar fortuna altrove.

Ma, Diamanti lo dimentica quando descrive una nazione nuova all’immigrazione, siamo invece un Paese di emigranti (o emigranti o briganti, diceva Crispi) esterni ma soprattutto interni. E facile all’oblio anche del proprio dolore. Siamo tutti stranieri per gli altri, ma siamo tutti attaccati fragilmente a un’eco di identità a una vulnerabile e minacciata parvenza di privilegio o di quello che ci sembra tale. E pochi sono autenticamente aperti al diverso, per istinto, cultura o persuasione. Perché guardare negli occhi l’altro senza diffidenza paura o arroganza richiede fatica, impone di guardare anche dentro noi stessi.

Io non so se “Terraferma” scaturisca da un “senso comune” più maturo, da una consapevolezza più responsabile e civile di Rocco e i suoi fratelli o de Il cammino della speranza. Penso che molti di una certa età guardino agli immigrati che affollano le nostre città e le colorano con le tinte della globalità, con gli stessi occhi e gli stessi sentimenti con i quali squadravano i contadini che percorrevano quel cammino dal Sud al Nord e prima ancora dal Veneto e dalla Toscana verso il triangolo industriale o le paludi pontine. Penso che abbiano dimenticato la loro disperazione e la loro miseria, ripetendo i modi e le forme dello stesso sospetto e dello stesso rifiuto. E trasmettendolo ai giovani come un contagio inarrestabile.

Che cosa resta in un contesto dove sono evaporati i capisaldi di un’etica collettiva, dove la competizione è crudele e l’opacità del futuro ha occupato l’immaginario, dove i nostri poveri sogni si sono trasformati in incubi, cosa ci resta se non esercitare noi stessi la sopraffazione di chi ci sovrasta su chi sta sotto di noi? Che cosa ci resta se non continuare a rimestare in quella miscela di “accoglienza” e “sicurezza” per decidere che è la seconda che per noi deve valere come primaria?

Eh si la storia siamo noi. Ne siamo talmente convinti, noi che viviamo al centro del mondo, noi modernizzati, noi civilizzati, noi acculturati che quando ci sentiamo più illuminati concediamo – nel migliore dei casi – a chi arriva, un po’ di tolleranza, un po’ di licenza nella lotta tra identità e storia a viversi brandelli di folklore, qualcosa al di sotto di presenza e di testimonianza. Ma il peggiore dei casi invece è la politica del governo che non è poi molto lontana da un sentimento comune, la collaudata tecnica brutale del rifiuto di questa “massa immobile di carne, informe senza volto” del respingimento cinico che si riserva a chi non è abilitato a vivere una vita propria che non gli appartiene in un mondo dove tutto è profitto, mercato, consumo e possesso, perché negata nei suoi fondamenti. Una vita cui la sua stessa nudità viene rinfacciata come una colpa e un capo di imputazione, quello di non aver nulla da perdere che espone al rischio, all’umiliazione e alla trasgressione.

Io non so se nella percezione sociale l’immigrazione costituisca un problema “culturale”, se la preoccupazione che gli italiani rivelano più o meno palesemente sia indotta dalla costruzione, artatamente alimentata, mediatica e politica, di una sicurezza minacciata dalle orde, dagli esodi biblici. Non so se invece sia originata e si concretizzi in una esaltazione dell’incertezza economica e occupazionale. Probabilmente il supposto accerchiamento lamentato in vaste aree del nord paese, indecifrabile, irrazionale, ineluttabile, è una miscela di questi ingredienti. E contribuisce al disegno di questo ceto politico irresoluto imbelle e incapace: quello di far sentire il Paese fragile, in pericolo, assediato, solo, inerme. Le condizioni perfette per affidarsi, per consegnarsi a uomini decisi, autoritari, cinici, ricchi, spietati, senza scrupoli e senza compassione. I più attrezzati per dialogare con un mercato e una finanza altrettanto cinici e spericolati. Si sopravvalutano e noi non dobbiamo credere loro. Né ai loro propositi né alle loro promesse. E nemmeno alle loro minacce. Né tantomeno alle loro “politiche”.

Il XXI secolo non sarà migliore del XX se non impariamo a vivere nel mondo e con gli altri. Non bastano i prodotti volonterosi degli uomini di cultura, libri, film, tesi di laurea, mostre, sull’avventura nuda cruda e disperata dei viaggi da un posto all’altro del mondo, fuori dall’oceano della disperazione magari per annegare in un piccolo tratto di mare. Siamo noi tutti che dobbiamo affrontare la traversata metaforica dell’esistenza, noi con gli altri e verso gli altri, perché è poi questo il senso della vita, della ricerca di un significato, dello spingersi oltre la paura. “Fatti non foste…” ecco, non siamo fatti per questo meschino e crudele rinchiuderci in una sopravvivenza minacciata in attesa di qualche apocalisse. Siamo fatti invece per la bellissima arte della felicità e della bellezza e dell’incontro e dell’amore, e non solo sullo schermo.


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