Anna Lombroso per il Simplicissimus
Nessuno può sospettare che le politiche di accoglienza dell’immigrazione adottate da paesi con un passato coloniale, rapace e spietato, siano state ispirate da quei sensi di colpa dell’Occidente tanto decantato soprattutto in terra di Francia. È vero che noi i conti con quei trascorsi non li abbiamo fatti mai, nemmeno con i crimini commessi, se addirittura pare normale innalzare un monumento al macellaio Graziani, neppure con lo sfruttamento e la sopraffazione più bieca, tanto meno con il razzismo che è rimasto radicato tanto da trovare spazio nei banchi del Parlamento, nei programmi di partiti di governo, e che con tremenda puntualità riaffiora svergognato. Ma è altrettanto vero che c’è ben poco pentimento in Francia, Gran Bretagna, Germania, Olanda, in tutta la “fortezza Europa” che ha ammesso e annesso negli anni numeri spesso contingentati di lavoratori immigrati a seconda dei bisogni di manodopera a prezzi stracciati, precaria, da tenere ai margini, comunque tollerata perché funzionale, anzi necessaria. E se non lo sappiamo noi che abbiamo dimenticato di esserci stati in quei “margini” e che sempre di più siamo minacciati di tornarvi.
Da noi, grazie alla labilità di confini formali, quelli del mare, così come per l’incrudelirsi di alcuni conflitti arrivano in gran numero, a pari condizioni di disperazione perché dovrebbe comunque essere riconosciuta la condizione di potenziale rifugiato a chi cerca riparo dalla guerra, come dalla fame, dalla sete, da catastrofi ambientali, insomma da fenomeni che l’ingrato Occidente ha contribuito ad alimentare.
E arrivano quando sarebbe più facile e popolare respingerli, ancora di più di quando sono state promulgate le ultime – in ordine di tempo – leggi razziali, quando l’unica misura praticabile è tirarli su dall’acqua e confinarli, anche quando dovrebbe essere loro riconosciuto lo status di profughi, perché viviamo in un Paese che non sa accogliere ma non sa nemmeno praticare quella impietosa gestione amministrativa degli “intrusi”, adottando trattamenti coattivi e segreganti a prescindere da ciò che si fa, ma per ciò che si è, una presenza non autorizzata, come l’antica figura eslege del diritto romano, abbandonato senza protezioni giuridiche alla volontà di potenza altrui. Ormai però altrove non li vogliono, anche se altrove preferirebbero andare, che giustamente non godiamo di buona stampa nemmeno presso di loro.
Il resto d’Europa in crisi non li vuole e ci ricorda che quando ondate analoghe, Est e balcanici in Germania, Nord Africa in Francia e Spagna, nessuno ha preteso aiuti, solidarietà, sostegno da mamma Europa. Ed è vero. Ma è vero che è questa l’Europa che loro hanno edificato, che loro hanno voluto così, che loro hanno ridotto così: chiusa, isolata e arrogante eppure mai come ora così debole, un’espressione economica, senza coesione, senza unità, senza pensiero e senso comune che non fosse profitto e prevaricazione.
E così la vogliono e la sostengono i giovani e spregiudicati rappresentati di un governo assoggettato e servile, che promette di trattare ogni emergenza, ogni crisi, ogni diritto, ogni libertà, ogni disperazione in quell’agenda del semestre di presidenza, che mai come in questo caso di dovrà chiamare Smemoranda. Perché già ora possiamo intuire che le vere priorità saranno dimenticate, che ci sarà qualche promessa di aiuto umanitario, che riceveremo busse e sorrisi come si fa con popoli riottosi e pigri: sorrisi perché li ripeschiamo, i disperati, e busse perché non seguiamo le raccomandazioni di un’Europa che esprime riprovazione per chi non esercita civiltà con popoli in fuga e alla fame, costringendo i suoi a una sorte analoga, condannandoli a stenti e a privazioni, in attesa di quella totale, desiderata e auspicata, quella della rinuncia alla democrazia.
Basterebbe un punto all’ordine del giorno se avessimo un governo capace della dignità della buona politica, orgoglioso di essere custode della sovranità di uno Stato e di un popolo. Basterebbe dire no ai trattati capestro, ridiscuterli perché un paese impoverito deve vergognarsi di trattare da rifiuti chi è più povero di lui, perché nessuna disperazione legittima l’accanimento contro chi è più disperato.