A prescindere da come andrà a finire il Consiglio Europeo, lo spettacolo offerto sulla questione immigrazione ci ha restituito ancora una volta l’immagine di una compagine scomposta e poco omogenea, messa insieme più per interessi che non per effettiva convinzione politico-culturale.
Dopo l’affaire Ucraina i segnali erano abbastanza chiari e con la crisi greca sono divenuti ancora più palesi. I presupposti che dovrebbero tenere insieme l’Europa e farne un contraltare alle più dinamiche economie e realtà macroregionali non riesce a decollare. Le differenze culturali, economiche e sociali sono troppo forti per poter essere accantonate nel giro di pochi anni e la percezione è che la situazione stia peggiorando di giorno in giorno. Più volte si è detto come il sentirsi europeo per un cittadino greco o portoghese sia ben altra cosa che per un olandese o un tedesco. La casa comune che doveva essere, ha troppe dependance e pochi spazi condivisi.
Ora sugli immigrati siamo giunti al paradosso. Tra chi chiude le frontiere e chi minaccia di alzare muri, l’Europa cala le carte e si scopre più preoccupata di accontentare l’elettorato interno dei singoli paesi che non di risolvere un problema umanitario. Siamo davanti ad un periodo storico in cui – anche grazie a Francia e Inghilterra che oggi si dicono contrari alla ripartizione delle quote di migranti – alcune zone fino a qualche tempo fa relativamente tranquille (almeno per gli standard del posto) non sono più considerabili sicure. Nonostante tutto però, proprio quegli Stati che oggi chiedono un blocco, un intervento deciso, una chiusura sul modello australiano, non si rendono conto che a differenza di questi ultimi, l’Europa, e alcuni paesi in particolare, ha grandi colpe nella crisi che il mondo alle nostre porte sta vivendo. I paesi sub-sahariani portano i segni della presenza europea e nonostante il legame proficuo (per gli europei) e duraturo, nulla è stato fatto affinché le popolazioni del luogo potessero emanciparsi o progredire. Per quanto si pensava potessero andare avanti così le cose?
Lo stesso dicasi per la fascia costiera del nord Africa dalla quale tutti hanno tratto benefici, commerciando con gli stessi dittatori che poi non hanno avuto scrupoli di rimuovere sperando in chissà quale “primavera”. Dal Medio Oriente poi, giungono flotte di disperati che fuggono da anni di guerre civili e instabilità, i cui segni saranno impossibili da cancellare e per le quali, anche qui, il fronte occidentale di colpe ne ha. Che la cittadinanza europea sia stufa di vedere questi flussi incontrollati e molte volte portatori di disordini è anche comprensibile, che lo stesso facciano le amministrazioni che in molti casi hanno assecondato questi eventi, no. Bisogna sempre tenere bene in mente che i migranti sono nella quasi totalità dei casi costretti da situazioni contingenti a scegliere la via dell’Europa e quasi mai lo fanno per spirito di avventura o per il piacere di fare una traversata nel deserto.
Rimediare nel breve periodo è pressoché impossibile, perché impossibile per l’Europa è approntare un intervento risolutore. Come ha giustamente affermato il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, c’è bisogno che chi ha causato i danni, ora vada a ripararli. Sul campo. E il riferimento è chiaramente a Francia, UK e USA. Continuare a produrre instabilità invece che promuovere politiche di sviluppo non farà altro che aumentare negli anni i processi migratori che sono, per chiarire, comportamenti assolutamente naturali tanto per gli animali quanto per gli uomini. Laddove scarseggiano condizioni decenti di sopravvivenza, si è spinti a spostarsi in luoghi dove ne sussistono di migliori; a prescindere da chi occupa quel territorio. Potremmo dire che, in un certo senso, ci stanno ripagando con la stessa moneta.
Luca Arleo