Magazine Cinema

Imomushi, storia di un bruco (Pt.2)

Creato il 17 luglio 2015 da Theobsidianmirror
Imomushi, storia di un bruco (Pt.2)Il tema sessuale, così importante nonostante sia appena accennato nel racconto di Ranpo Edogawa, è reso benissimo nelle tavole del mangaka di culto Suehiro Maruo (autore anche de “Il vampiro che ride”, di “Midori. La ragazza delle camelie”, eccetera): quelle al limite del pornografico che mostrano l’intimità tra marito e moglie (che nell’edizione italiana si è tentato di censurare, senza troppa convinzione, con una sorta di alone che dovrebbe coprire i dettagli anatomici più espliciti), e quelle sottilmente erotiche in cui Tokiko sogna che il suo corpo sovreccitato venga tormentato da miriadi di insetti. La graphic novel di Maruo fu pubblicata in Giappone a puntate nel 2009, e proposta in italiano nel 2012 dalla Coconino Press con il titolo “Il bruco”. Nell’opera l’autore riesce nella non facile impresa di dare vita ai sentimenti dei due protagonisti principalmente con il disegno, con tratti che sottolineano le pieghe della bocca, l’espressione degli occhi e la curvatura delle spalle, per esempio, un linguaggio del corpo che dice più di mille parole; e questo non solo perché un dialogo verbale tra marito e moglie non è evidentemente più possibile, ma come emblema della scarsa intimità rimasta (o mai esistita) fra i due. Il risultato è spesso una miscela di poesia e grottesco, sia per il contrasto tra la bellezza e il dettaglio delle tavole e ciò che viene rappresentato, sia perché guardandole non si può fare a meno di guardarsi anche dentro per capire le cause del proprio disagio – perché è indubbio che un disagio lo si avverte. Se certe pratiche tra marito e moglie sono la prassi e la normalità nell’ambito sessuale è soggettiva, cos’è che turba tanto? Non sarà che, intimamente, tendiamo a percepire il sesso come appannaggio delle persone “normali”, di corpi perfetti, o perlomeno sani e… interi?
Personalmente a disturbarmi, come già nel racconto di Edogawa, è la descrizione della crudeltà di Tokiko verso colui che pure afferma di avere amato, e che in un crescendo d’orrore si esplicita dapprima in gesti poco eclatanti (sostanziale indifferenza, piccole cattiverie e ripicche), e poi in quel guizzo finale di furia cieca e irreparabile con la quale la donna priva Sunaga del suo unico rifugio e consolazione, gettandolo per sempre in un abisso di buio e solitudine. Solo allora arriva il rimorso, ma è davvero profondo, e quanto?
Il dubbio che neanche questo riesca a scalfire davvero il cuore di Tokiko rimane. Superato il primo impatto, e soprattutto a una ripetuta rilettura, quest'opera svela una complessità che non deriva solo dal testo di Edogawa che ne fornisce l’ossatura, ma anche dalla capacità di Maruo di mantenere l'atmosfera perennemente in bilico tra realtà e sogno, le due dimensioni fra cui i protagonisti sembrano continuamente oscillare. Forse non è un fumetto per tutti, ma se si trova il giusto approccio può rivelarsi una gradevole sorpresa.
Se il fumetto è in tutto è per tutto aderente al racconto di Edogawa, con la differenza che calca la mano sull’erotismo, lo stesso non può dirsi di "Kyatapirâ" (Caterpillar), il lungometraggio che Koji Wakamatsu diresse nel 2010. Nel film di Wakamatsu i due coniugi si chiamano Kurokawa e Shigeko e la vicenda è stata posticipata agli anni ’40, ai tempi della seconda guerra cino-giapponese, ma ciò che più conta è l’elemento di critica sociale che fa capolino, sottolineato dall’utilizzo di spezzoni di veri filmati di repertorio e da insistiti flashback dai quali si apprende che Kurokawa stuprava donne inermi, incendiava villaggi, uccideva senza pietà - cosicché nel vederlo così orrendamente mutilato, l’iniziale accenno di pietà lascia ben presto il posto a una sorta di indifferenza per quello che sembra, nell’ottica orientale, una sorta di karmico corrispettivo per i crimini perpetrati.
Si potrebbe obiettare che in tempo di guerra ben pochi uomini si comportino diversamente da quanto abbia fatto Kurokawa (lo stesso Sunaga di “Imomushi” potrebbe averlo fatto, anche se Edogawa non lo dice), mentre ogni gesto di sua moglie assume l’aspetto di una programmatica sopraffazione che vede nel sesso il suo elemento chiave. Tuttavia, nel constatare come la società esalti le imprese di questo “piccolo” uomo, il senso di nausea non può che prevalere.
Imomushi, storia di un bruco (Pt.2)La divinità-Giappone (quella che, non dimentichiamolo, ha creato i kamikaze) manda il cittadino in guerra a conquistare e uccidere; e anche quando questo torna sconfitto, ridotto a un bruco umano, l’ossessione per il nazionalismo non viene meno. A Kurokawa viene data una medaglia e lo si proclama “dio della guerra” - facendone un feticcio della propaganda che, ai nostri occhi, diventa invece il manifesto vivente di tutte le guerre senza senso che hanno insanguinato questa terra e del biasimo verso una società che, nell’inseguire la gloria, non fa altro che creare infelici e mostri, insomma una metafora dell'Impero che (come la Storia c’insegna) andava incontro al suo declino. Dalla sua giovane moglie, invece, pretende che sacrifichi la vita per accudire un marito per cui l’affetto, se mai c’è stato, è morto e sepolto da tempo. Kurokawa ha vissuto il matrimonio come poi la battaglia: apprendiamo infatti che picchiava la moglie accusandola di essere sterile. Senza il legame dell’amore o dei figli, fra loro non restano che le convenienze sociali. La donna non vi si sottrae, ma pretende qualcosa in cambio.
Sprofondata in un inferno di rabbia e disperazione, Shigeko si prende la sua rivincita tormentando suo marito, fisicamente e verbalmente, accudendolo senza amore e facendo sì che lui, ogni minuto di ogni giorno, sia consapevole di questo, e alimentando i suoi rimorsi. Anche quando adempie ai suoi “doveri coniugali”, Shigeko non è asservita a Kurokawa, anzi usa il sesso come strumento di potere attraverso il quale manipolarlo e ricattarlo. Perché la sua vendetta sia completa non può permettere a suo marito di dimenticare il passato, né al mondo di mettere da parte e dimenticare lei. Ed ecco che, appena possibile, Kurokawa viene avvolto nella sua uniforme, la medaglia al petto, e trascinato per le strade del paese su un carretto come una reliquia vivente, il tributo alla lealtà e alla sofferenza di sua moglie.
È la recita dell’eroe e della sua sposa devota, un rito che non ripaga Shigeko, ma che la consola momentaneamente con il perverso piacere legato al disagio che a suo marito, evidentemente, ne deriva; un rito che potrebbe andare avanti all’infinito se Kurokawa non scegliesse diversamente. Sembra incredibile ma quest’uomo, che non può far altro che strisciare, ad un certo punto riesce a riprendere in mano il suo destino, e lo fa con un gesto estremo che lo affranca dal presente e, insieme, dal passato. È difficile dire se sia meglio il racconto, la graphic novel o il film. E avrebbe senso, poi? Non credo. Sono opere diverse con una propria complessità e le proprie unicità che vanno valutate, e apprezzate, per quello che sono. Io ho amato molto la svolta intimista del racconto di Edogawa e il modo in cui Suehiro Maruo ha dato forma alle sue ossessioni, ma non posso che fare un plauso a Wakamatsu che, lontano dalle tentazioni del pinku eiga, ha dato un inedito spessore sociale a questa storia. Come ho scritto in apertura, è questione di sfumature. E sono le sfumature che fanno la differenza.
Imomushi, storia di un bruco (Pt.2)

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Magazines