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Mi ero giurato di non parlarne. Ma è più forte di me. Le polemiche, esplose all'estero, su Bremgarten e la questione “rifugiati”. Nel senso: li lasciamo andare in piscina? Li facciamo entrare nei parchi? Ecceterea. Questa sera ho fatto due passi sotto casa e ho incontrato due donne (giovani), una spingeva una sedia a rotelle. Seduto, piegato come una cannuccia sul lato sinistro, un ragazzo. Africani. Mi fermo, li saluto e chiedo da dove vengono. Inizio a parlare con le due donne, in inglese. Sono eritree, il ragazzo, gravemente andicappato, è il figlio di una di loro. Sono in Svizzera da 9 mesi, in attesa di decisione sulla loro richiesta d'asilo. Vivono in quello che chiamano “albergo”, uno stabile vicino alla Stazione di Bellinzona dove, fino a un anno fa, i clienti andavano per cercare ragazze, molte dell'Est, alcune africane: un ex postribolo. Mi chiedo se lo Stato, oggi, paghi l'affitto agli stessi proprietari.
Ho trascorso 15 minuti ascoltando le due donne. Ho imparato molte cose, che non sapevo.
Sono per metà malcantonese. Ad Astano, durante la seconda Guerra mondiale, gli internati polacchi hanno bonificato una zona paludosa che oggi è ricoperta di campi e attraversata dai turisti. Dietro hanno lasciato anche qualche figlio. Oggi, qui da noi, a qualcuno è venuta l'idea di far lavorare i richiedenti l'asilo in attesa di decisione. Li pagano 3 franchi all'ora per sistemare sentieri sui quali non passa nessuno e ramazzare strade che sono comunque già pulite. Ad Astano c'è una targa che ricorda il lavoro degli internati polacchi. Del lavoro dei richiedenti l'asilo non resterà nulla.
Mi è venuta un'idea, da un po' di tempo: portiamoli nelle scuole. Che raccontino. La loro vita. Spieghiamola ai ragazzi. Utilizziamo, se non ci sono ore disponibili, ore sottratte a lezioni inutili. Ci sono e, oggi, non le cito. Ma ci sono. Se la scuola deve preparare alla vita, allora la vita di questi rifugiati costituisce un tassello.
Portiamoli a teatro, diamogli un palcoscenico, facciamogli raccontare la loro vita davanti al pubblico.
Diamogli una pagina sui giornali, dove scrivere ogni venerdì e se non ci sono pagine togliamole a certe penne artritiche e senza ispirazione.
Diamogli, una volta a settimana, due minuti al Telegiornale. Il sabato mattina, tre minuti alla radio. Se non c'è spazio, nel palinsesto, togliamolo al Meteo, per parlarci chiaro, che è ossigeno rubato al Pianeta.
A qualcuno questa idea sarà già venuta, non lo so, ammetto di non essere informato. Delle polemiche all'estero non mi preoccupo: nessuno, in Europa e in materia di rifugiati, ha i numeri per impartire lezioni agli altri. Tuttavia, vedendo oggi le immagini della Consigliera federale Simonetta Sommaruga insieme ai giornalisti (fragile, la Signora, nel senso della sostanza prodotta, della presenza...), e soprattutto ascoltando le sue un po' faticosamente e scontatamente pronunciate parole, mi sono detto: idea!
Un giorno, signore et signori, potrebbe capitare a noi. Mio nonno Ambrogio era emigrato in America per trovare lavoro e guadagnare soldi per mantenere la famiglia. Ce l'ha messa tutta, sempre nel rispetto della legge (questa è una premessa sulla quale nemmeno mi soffermo, è davvero implicita e imprescindibile). Un giorno, mio nonno è tornato a casa. Altri, della famiglia, sono rimasti, e quel paese hanno contribuito e oggi contribuiscono a tenerlo in piedi. Potrebbe toccare a noi. Vuoi mettere se ci dessero, oltre alla possibilità di attendere una decisione sul nostro futuro (resti o te ne vai), la possibilità di raccontare chi siamo e da dove veniamo, che cosa abbiamo fatto nella vita e che cosa, ancora, dalla vita ci aspettiamo, per quel poco che sia, per quel poco che ci vorrà dare?
Ci vorrebbe una politica, per questo. E, aggiungo, anche dei politici. Che non ci sono. Piatti. E senza fantasia. Burocrati. Da paura.