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Una cittadina nel cuore della provincia americana. Lo scenario tipico di un racconto di Carver o di Richard Ford. Quelle case tutte uguali, ognuna con il suo giardino, con la sua piccola veranda di legno e, di fronte ad esse, strade ampie e deserte che tracciano un reticolato omogeneo, segnando le direzioni verso l'immensita che stordisce e fa sembrare ogni luogo al suo interno "il buco di culo" del mondo.
In questo cuore dolente d'America, così lontano dalle luci delle grandi città, si incrociano le vicende esistenziali di tre ragazzi: Lee, Sarah e Purdy. Sono loro i protagonisti, insieme all'America, di Imperi, graphic novel in bilico tra realtà e fantasia firmata da Nate Powell, vincitore del premio Eisner per Swallow Me Whole.
Già sfogliando le prime pagine dell'opera, Powell, ci immerge nell'atmosfera alienata e desolante della periferia americana. Tutto sembra surrealmente statico, quasi stessimo parlando di un luogo dimenticato dal resto del pianeta, ormai chiuso nella sua solitaria storia. Per chi nasce in un luogo come questo, il primo nemico che ci si trova ad affrontare è la noia. Così Lee passa le giornate a leggere fumetti e ad inventarsi immaginarie missioni con protagonisti i suoi eroi preferiti. Purdy ha messo in piedi una piccola gang, mentre Sarah legge tantissimi libri nel tentativo di evadere dall'insipida realtà che la circonda.
I tre ben presto entrenno in contatto, sviluppando un legame basato sulla geografia ma anche, e soprattutto, su una misteriosa e brutale serie di mutilazioni ad alcune tartarughe.
E' questa la prima immagine vivida della violenza con i quali tre entrano in contatto, più reale delle immagini di guerra che arrivano dalla tv. E' in questo modo che i ragazzi iniziano a fare i conti con la realizzazione concreta delle loro fantasie di potere, a sperimentare cosa vuol dire agire, fare male, essere oppressi ed opprimere, pur vivendo in un posto dove a farla da padrone sembrano essere l'impotenza e la distanza dal mondo dove le cose si decidono e succedono.
Dopo essersi persi di vista i tre si rincontreranno nell'età adulta. Ognuno di loro avrà seguito strade diverse, ma tutti si troveranno a lottare per il proprio futuro tra l'incertezza della vita, la frustrazione del lavoro e la difficoltà di accettare e padroneggiare la propria libertà, la propria responsabilità, il proprio potere.
L'opera di Nate Powell si presenta come un affresco della classe media americana e del suo rapporto con lo spirito di una nazione, che spesso si incarna nella sua forma più ampia e avvolgente nel dito immobilizzante dello Zio Sam. La violenza, il dovere e l'amore per la patria sono l'unico collante che legano il centro sperduto dell'America ai mirabolanti luoghi del potere e del sogno a stelle e strisce. Tuttavia, tutto questo, sembra arrivare in queste terre desolate sotto una forma distorta. Immagini televisive che fanno paura, ma che sembrano sempre così lontane, spiriti fanatici che si presentano come l'unica occasione per avere una rivalsa da quella condizione di impotenza e alienazione, fantasmi da cui allontanarsi, crogiolandosi nella sconfitta, ma con la consapevolezza che quel potere opprimente non sarà mai così vicino da sconfiggerti del tutto e, quindi, in fondo, chissenefrega.
I temi trattati da Imperi sono perfettamente espressi dal tratto di Powell, che mi ha ricordato sia lo stile di Jeff Lemire che quello di Craig Thompson. Come in Essex County del primo, il paesaggio, descritto con linee essenziali ma graffianti, diventa protagonista delle vicende facendo da sfondo alle storie, alle azioni e alle riflessioni dei personaggi, aggiuggendo ad esse una carica espressiva notevole. L'atmosfera fortemente realistica e cinematografica, che sembra strizzare l'occhio all'estetica di un certo cinema indipendente americano, viene intervallata a sequenze più oniriche, soprattutto dove si cerca di esprimere il tentativo di evasione dalla realtà dei protagonisti attraverso la fantasia o dove, con immagini quasi metaforiche, si cerca di rappresentare un potere che sembra impossibile da controllare, sia per chi lo dovrebbe gestire sia per quelli che lo subiscono. E' così che un esercito di carrarmati che avanzano verso la cittadina, simbolo della catastrofe e dell'oppressione dell'esistenza con le sue scelte più o meno obbligate, mi hanno ricordato la cavalcata degli Aurochs in Re della Terra Selvaggia. Proprio come la piccola Hushpuppy in quel film, anche i nostri protagonisti saranno costretti a prendere consapevolezza delle proprie possibilità, a fare un salto di cosapevolezza, per poter prendere in mano le proprie vite e affermare la propria individualità, volgendosi con sguardo limpido verso il futuro.
In conclusione, Imperi è un'opera davvero profonda e complessa, sicuramente non di facile lettura e assimilazione, ma capace di emozionare e far riflettere. Con il suo linguaggio e le sue immagini sempre in bilico tra scarno realismo e atmosfere oniriche riesce ad esprimere a pieno l'alienazione e lo straniamento della classe media americana, un esercito di "invisibili" sepolti nel cuore di una nazione immensa e piena di contraddizioni, dove carnefice e vittima si intercambiano continuamente e la violenza è sempre pronta ad esplodere, inaspettata e devastante.
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