(pubblicato sul numero di gennaio/febbraio di Develop.med dell'Istituto Paralleli)
"Imprenditori di tutto il mondo, unitevi!" Avrebbe potuto essere questo lo slogan del secondo Summit globale dell'imprenditorialità, che si è tenuto a Istanbul da 3 al 6 dicembre: il primo in un paese a maggioranza musulmana dopo quello inaugurale dell'aprile 2010 a Washington, un'iniziativa lanciata dal presidente Obama per riallacciare i rapporti tra Stati Uniti e Islam, compromessi dalla retorica e dalla politica dello "scontro di civiltà". Invece, ne è stato scelto uno meno impegnativo: "Imprenditorialità, valori e sviluppo. Un'agenda globale", che ha comunque ben rappresentato la volontà di coinvolgere tutto il Sud del mondo - almeno quello meglio attrezzato per entrare virtuosamente nei circuiti della globalizzazione - in un processo di sviluppo economico che trascende le barriere religiose e le rivalità politiche. E questo tocco di globalità - nei colori indossati, nelle lingue parlate, nelle esperienze professionali - è stato ben visibile durante i lavori congressuali, nei corridoi, in occasione degli eventi paralleli: molte le donne, moltissimi i giovani che hanno partecipato a un programma - di dibattiti e di incontri - a loro dedicato.
Assente il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan, bloccato da un preoccupante problema di salute e da un'operazione apparentemente risolutiva, le autorità turche sono state rappresentate nella sessione inaugurale dal ministro dell'economia Zafer Çağlayan, dal vice-premier Ali Babacan, dal presidente del Parlamento Cemil Çiçek; ma il discorso più ispirato e trascinante è stato quello di Joe Biden, vice-presidente degli Stati Uniti. Biden si è esibito in un convinto inno allo spirito imprenditoriale, alla lungimiranza politica di Obama, al rischio, alle scelte coraggiose da cui dipendono la prosperità del mondo - del mondo globale - e il buon funzionamento della democrazia: perché anche le "rivoluzioni democratiche in Medio oriente sono imbevute di spirito imprenditoriale"; nella sua visione del mondo, infatti, le libertà politiche e quelle economiche sono due facce della stessa medaglia: e ha sottolineato la necessità di rendere libero non solo il mercato delle merci e dei servizi ("niente più corruzione, niente più barriere agli investimenti"), ma anche quello complementare delle idee. Ha poi reso omaggio alla Turchia, che ha definito "una storia di successo": alleato prezioso degli Usa, incamminata con decisione sulla via delle riforme democratiche, capace di ritmi di crescita vertiginosi - 8,2% nel terzo trimestre del 2011, la seconda miglior performance mondiale dopo quella della Cina - e impegnata in un'aggressiva modernizzazione del sistema produttivo e delle infrastrutture. La sala era gremitissima, la partecipazione è stata assorta, gli applausi scroscianti.
Il modello turcoI dignitari di casa hanno invece approfittato della platea internazionale per presentare - con un pizzico di autocompiacimento - il "modello Turchia" e per rivendicare la sua influenza nella transizione verso la democrazia dei paesi arabi. Babacan ha scelto una metafora che rappresenta in modo realistico e suggestivo la Turchia del XXI secolo come potenza economica in ascesa: "non è il pesce grande ma il pesce veloce che mangia il pesce piccolo"; e cioè, le prestazioni da primato di oggi e la convinzione di poter continuare nella stessa direzione dipendono non dalle dimensioni complessive del Pil (nella speciale classifica, la Turchia è al 16° mondiale e 6° europeo: punta al 10° assoluto per il 2023, o più realisticamente per il 2050), non da investimenti di stato o da rendite, non dall'industria pesante o da ricchezze del sottosuolo, ma dalla capacità di innovare e di esportare, dalle liberalizzazioni e dalla capacità di competere su scala globale, da una popolazione giovane - l'età media è di 28 anni - e da un radicato spirito imprenditoriale (e da un governo solido e stabile: la cui assenza, in molti paesi europei, ha contribuito non poco - secondo il vice-premier turco - alle loro attuali sventure). E la Turchia è "un esempio vivente" - anche di come l'Islam è perfettamente compatibile con la democrazia - per tutta la regione mediorientale, la cui trasformazione è per Babacan "irreversibile": una regione idealmente unita da una storia e da una cultura condivise, in cui "le libertà e i diritti fondamentali dovranno essere goduti da tutti senza eccezioni", in cui assicurare il libero transito di merci e persone (tramite l'abolizione dei visti) per far decollare gli scambi, in cui la vera ricchezza sono non il petrolio o il gas naturale ma le giovani generazioni che hanno bisogno di scolarità e di formazione. È il suggerimento - e al tempo stesso l'auspicio - dell'amministrazione Erdoğan.
"L'Oriente e l'Occidente appartengono a Dio"
Questa prospettiva regionalista è stata ripresa dal ministro Çağlayan, ex imprenditore e cantore del coraggio indomito degli imprenditori, che vorrebbe creare nuovi legami operativi tra New York, Istanbul, Medina e Gerusalemme (ha citato il Corano: "l'Oriente e l'Occidente appartengono a Dio") in un mondo senza conflitti e in piena armonia; e dal sultano Bin Saeed Al Mansoori, ministro dell'economia degli Emirati arabi uniti in cui si svolgerà la terza edizione del Summit, che ha posto l'accento sulla ritrovata collaborazione - dieci anni dopo l'11 settembre - con gli Stati Uniti di Obama e ha invitato i paesi che fanno parte dell'Organizzazione per la cooperazione islamica di rinsaldare i propri rapporti e di aprirsi ad altre regioni - soprattutto a quelle in forte crescita, come l'Estremo oriente - sul piano sia economico, sia politico e culturale. Del resto, anche il messaggio di saluto di Erdoğan stampato nel programma ufficiale propone un approccio articolato: perché il premier turco, oltre a evidenziare la funzione di traino degli imprenditori nelle trasformazioni economiche e nel progresso tecnologico, ne riconosce anche "il ruolo decisivo [...] nel promuovere la convergenza, la cooperazione e il dialogo tra culture"; e pertanto richiama con orgoglio l'esperimento dell'Alleanza delle civiltà - sotto l'egida dell'Onu, a guida turco-spagnola - che ha celebrato nei giorni scorsi a Doha il suo quarto forum: "sosteniamo lo spirito imprenditoriale economico e tecnologico con un'iniziativa sociale, culturale e orientata alla pace e spingiamo affinché le culture coesistano nella tolleranza e nel rispetto reciproco." La globalizzazione dal volto umano: senza dimenticare le diseguaglianze, la povertà, il degrado dell'ambiente, il razzismo, il terrorismo e le guerre.
Dal macro al microPer altri due giorni e mezzo si sono susseguiti altri discorsi ufficiali; momenti conviviali e chiacchierate informali nelle sale spaziose del Centro congressi di Istanbul; premiazioni delle imprese turche e arabe più dinamiche e innovative, inserite nell'indice dell'AllWorld Network; workshop sull'imprenditorialità femminile, giovanile ed eco-sostenibile; dibattiti e dibattiti con imprenditori di successo, giornalisti, economisti, responsabili di istituzioni del mondo economico turco. Dibattiti dal taglio internazionale, che sono anche serviti per un confronto sulle caratteristiche microeconomiche della Turchia. Perché, se da un lato Rifat Hisarcıklıoğlu, presidente dell'Unione turca delle camere di commercio e industria e delle borse merci (Tobb), ha rivendicato per il suo paese il ruolo di centro imprenditoriale del nuovo Medio Oriente, il presidente dell'Organizzazione per lo sviluppo delle piccole e medie imprese Mustafa Kaplan e il ministro delle dogane e del commercio Hayati Yazıcı hanno spiegato come - in concreto - le autorità di Ankara si stanno muovendo per centrare l'obiettivo: da una parte, offrendo incentivi finanziari - attraverso un rigido processo di selezione - soprattutto alle imprese più innovative e comunque orientate ai mercati esteri; dall'altra, semplificando in modo decisivo tutti gli iter burocratici a cui è soggetta l'attività imprenditoriale. Lo stesso presidente della Repubblica Abdullah Gül, nei giorni immediatamente successivi a un grande convegno dell'Assemblea degli esportatori turchi (Tim), ha parlato di un nuovo focus - con investimenti cospicui e mirati - sulla ricerca scientifica, sulle nuove tecnologie e sull'innovazione: così da aumentare la produttività e le esportazioni ad alto valore aggiunto e a bassa intensità energetica, così da contrastare la dipendenza da combustibili fossili e il cronico deficit delle partite correnti. Una strategia rivolta al futuro.