Impulsi cubani

Creato il 27 luglio 2012 da Unarosaverde

Questo sarà un post interminabile e dispersivo, un concentrato inarrivabile di fatti miei. Vi avverto subito così potete decidere se avete di meglio da fare o vi accomodate in poltrona, per così dire, a leggervi qualche altra delle mie sciocchezze.

Lunedi e martedì, comincio col dirvi, ero impegnata a gestire la tristezza da rientro, dopo il gran bel fine settimana parigino. In ufficio il lavoro seguiva andamenti simili all’altimetria della tappa del Mortirolo, con pause di falso-piano seguite da picchi verticali. Di quando in quando mi facevo un giretto sul web, portali meteo in particolare, per capire quanta acqua prenderò la prossima settimana ad uno spettacolo al Teatro Romano di Verona.

Durante una di queste spedizioni virtuali sono successe due cose: la prima è che sono finita su un articolo che mi ha condotto ad un sito che mi ha portato ad un altro e quello che lì ho trovato costituirà l’argomento principale di questo post che però scoprirete solo alla fine perché, come potete già intravvedere, l’ho presa alquanto larga.

La seconda è che mi sono messa a cincischiare con le password di accesso al sito in cui mercoledì sarebbero stati pubblicati i risultati del Proficiency, per vedere se funzionavano. Dopo aver bloccato l’account per smemoratezza, ho sudato sette camicie per ottenere la collaborazione del severissimo sistema di sicurezza cambridgiano e riuscire a sbloccarlo; finalmente apertisi i cancelli supersegreti della mia pagina personale, ho scoperto che – o miracolo – gli esiti c’erano già e io ho passato il CPE.

Ho guardato tre volte in mezz’ora la pagina, scaricato il pdf con i voti, ricontrollato altre sei volte mentre mi veniva la ridarella e mi si annullavano perfino i sintomi della sindrome premestruale. L’ho passato per un pelo, con un listening gravemente insufficiente e uno speaking mediocre: il resto ha probabilmente fatto brodo e così mi sono ritrovata con un 60/100, coincidente con la soglia minima di passaggio. Oh che culo, mi è venuto da dire in modo poco educato ma accuratamente descrittivo. Mentre cominciavo ad elaborare l’eventuale opportunità di rifarlo a dicembre in modo più dignitoso e cercavo di evitare che le rogne lavorative venissero a me, ho continuato però a rimuginare, con l’ilarità incredula che ormai avevo addosso, su quell’altra cosa che avevo scoperto di cui, adesso, prometto, comincerò sul serio a raccontarvi.

Prima però lasciatemi dire che, nel dicembre del 2003, ho trascorso tre settimane a Cuba. Era il mio primo vero viaggio da adulta: due compagni di viaggio, zaino in spalla, niente di programmato, miglia e miglia lontano da qualunque cosa assomigliasse a Varadero, notti nelle case private, spostamenti con mezzi locali. Cuba non era all’inizio della mia lista di cose da vedere però mi incuriosiva e avevo voglia di fare come i globetrotter che per anni mi erano sfilati davanti agli occhi nelle mie estati da camperista.

L’Havana ci accolse a sera inoltrata, in un caldo umido e dolciastro e nell’oscurità quasi completa. Silenzio, poche automobili, nessun lampione per strada. Abituati al bagliore europeo continuo e ancora ignari della situazione locale, ci facemmo portare da un taxi sgangherato fino alla prima delle nostre mete, seguendo non so quale guida: la casa particular di un certo Tommy Reyes, Notre Dame de Bijoux. Cercatelo su internet: troverete qualche articolo interessante su di lui ma, se potete, fate di meglio e soggiornate da lui: vi fornirà materiale di suggestione pregevole.

Dai finestrini dell’auto decrepita avevamo visto sfilare sotto gli occhi edifici diroccati, strade costellate di voragini, macerie: l’aspetto della via in cui ci depositò il taxista manteneva lo stesso profilo. Davanti all’unica facciata colorata ci aspettava Tommy, di età indefinibile, corporatura robusta, testa completamente calva, avvolto da un kaftano blu cobalto e adornato, in ogni centimetro di pelle disponibile, da anelli, orecchini, collane e monili. Fuori imperava il diroccato ma, dietro il muro, c’era un tripudio di colori.

La sua casa era meravigliosamente kitsch, zeppa di oggetti collezionati in anni, con un giardino tropicale in miniatura; il telefono suonava continuamente, gente di ogni età, genere, umore, orientamento sessuale, colore della pelle entrava e usciva dal cancello bianco d’ingresso ad ogni ora del giorno e della notte. Le stanze erano pulitissime, con soffitti altissimi, colorate e arredate in uno stile coloniale semplice e d’effetto, la cucina ottima. Erano così particolari, quelle stanze, ognuna di un diverso colore, che uno dei miei amici, al ritorno, decise di usare una fotografia, scattata mentre mi rifacevo il letto, per farmi un ritratto su sfondo azzurro.

Tommy ci diede giusto il tempo di mettere a terra lo zaino prima di farci sedere attorno ad un tavolino: fu l’unico momento in cui lo vedemmo serio nei tre giorni che trascorremmo a casa sua. Ci disse due cose: la prima che a Cuba avremmo visto tutto e il contrario di tutto, perché il suo paese era la quintessenza del surrealismo tropicale. La seconda è che noi, per la maggior parte dei cubani indistintamente, lui stesso incluso, non eravamo altro che portafogli con le gambe. Aveva ragione su entrambe le cose: amava profondamente la sua patria e la sua gente ma era lucidamente obiettivo. A Cuba ci sono il sole, l’acqua, la frutta e la verdura: il resto te lo devi inventare, in una vita che non è altro, per molti, che un continuo arrabattarsi.

Fu un viaggio incredibile e complesso, nelle nostre teste oltre che in luoghi diversi dai nostri. Impossibile rimanere indifferenti, difficilissimo, nonostante i pregiudizi, nonostante quello che osservammo nelle tre settimane in cui girammo l’isola in lungo e in largo, parlando con la gente, leggendo tra le righe, mescolando le impressioni al nostro modo occidentale di gente libera di intendere l’esistenza, tirare una conclusione. La mattina dicevamo una cosa, la sera dopo pensavamo l’esatto opposto.

Nessuno di noi tre avrebbe mai scelto di vivere in un posto così, nessuno di noi tre poteva dire, al termine della vacanza, che qualcosa di Cuba non ci fosse rimasto sotto la pelle. E se pure eravamo stufi di vedere miriadi di piazze intitolate a Josè Martì, confusi dall’aria sfatta delle case e delle automobili, stupiti dalla rassegnazione mescolata all’umorismo delle persone, increduli davanti ad aragoste favolose che costavano 5 dollari e mojitos che ci ritrovavamo tra le mani anche sulle spiagge libere, offerti da gente nascosta dietro i cespugli, totalmente immuni al fascino di Che Guevara, di Fidel Castro e della Revoluciòn, pronti a barattare increduli un anellino di corallo nero con un pacchetto di fazzoletti di carta, merce di scambio al mercato nero, infastiditi dalle continue profferte sessuali di uomini e donne nelle zone più turistiche, disgustati dai comportamenti dei nostri connazionali che sembrava fossero al mercato della carne umana, a distanza di anni ancora ricordiamo con nostalgia la nostra esperienza e l’indefinibile aurea di assurdità che rivestiva l’isola come una bolla.

A Cuba c’è musica ovunque e la gente sa ballare come nessun altro al mondo sa fare; perfino i bambini piccoli, quando sentono due note, si muovo inconsciamente a ritmo e ti incantano per la naturalezza con cui il loro corpo oscilla. “Tommy”, gli chiesi prima di salutarlo, “mi procuri un po’ di canzoni cubane belle, magari un po’ di son?”. “ Lascia fare a me”, rispose, “ti darò di meglio.” Poche ore dopo, per un ridicolo prezzo, avevo nello zaino una decina di CD. Fu una grossa delusione: avevo chiesto musica cubana bella e mi ritrovai tra le mani l’equivalente insignificante della musica pop del luogo, un concentrato di pausiniramazzotttiantonacci rockettaro e urlante sulla solita solfa sol, besos y amor mescolato a rap e ritmo della stessa specie destinata all’oblio rapido che si trova in ogni luogo del mondo. A Trinidad, una sera, mi risollevò la speranza un’orchestrina alla Casa della Musica: il loro è l’unico cd del viaggio che ho conservato. Mi è rimasto il rimorso di non essere stata capace di rintracciare, durante quelle tre settimane, le stesse sensazioni che mi suscitano le prime note del Chan Chan, anche dopo il centesimo ascolto.

Ed è per questo che, martedì pomeriggio, nel mio bighellonare per il web, la notizia che avevo letto mi rimaneva nella testa e continuava a girare. Un concerto di musica cubana, la sera dopo, biglietti ancora disponibili.

Li prendo, non li prendo, qualcuno vuol venire con me? Intanto che ci ragionavo e ci rinunciavo e ci riragionavo si erano fatte le 21.00. All’ultimo giro sul sito, di quelli di accerchiamento degli squali verso la preda, il contatore segnalava un solo biglietto disponibile. Uno. Uno solo.

E perché non ci dovrei andare da sola? E perché non seguire l’impulso e farmi quasi duecento chilometri tra andata e ritorno, in mezzo ad una settimana movimentata di sonno scarso e impegni troppi se sono anni che li voglio sentire, io creatura da musica classica e poco più? Deciso, sul filo di lana, come il CPE, di puro impulso. Quell’ultimo biglietto alle 21.04 aveva finalmente un nome: il mio.

Mercoledì sera ero al Teatro del Vittoriale, a Gardone Riviera, davanti ad un palcoscenico che dava le spalle ad una cornice lacustre da cartolina. Sul palcoscenico c’era, finalmente, musica cubana bella. C’erano il son e il chachacha. C’erano le mani e i piedi che tenevano il tempo, le labbra che sorridevano e strumenti che rispondevano ai magistrali richiami delle dita.

C’era l’orchestra del Buena Vista Social Club con alcuni mostri sacri. C’era Omara Portuondo e adesso che finalmente ve l’ho detto non scrivo altro perchè non serve più e vi lascio immaginare quanto sia stato bello.

(E c’era pure una gomma bucata dell’auto che, visto che non me ne sono accorta, si è fatta tutti quei chilometri a cento all’ora. Forse c’era anche qualcuno, lassù, che mi ha tenuto d’occhio per tutto il tempo. Quizás, quizás, quizás.)


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