In albis -13-

Da Nivangiosiovara @NivangioSiovara
Così rifletteva, fendendo la suburra grigia e gli incroci col semaforo giallo ed il mattino livido, e le ali formate da tutta quella gente misteriosamente trafelata, sui marciapiedi, ognuno aggrappato al suo invisibile binario tracciato dall'abitudine - e tutti dominati da un invisibile conto alla rovescia: ubbidiente e silenzioso, quest'esercito di persone che si spintona ordinatamente, ad occhi bassi; spettacolo questo, che a lui, all'avvocato, non scalfiva neppure la periferia dello sguardo, ed i tabelloni sfolgoranti, i corpi seminudi che pubblicizzavano cose, cose, cose che si protendevano al di fuori di se stesse per essere viste, essere valutate da lui, alla guida, cieco, che si facevano strada fra i moscerini sfracellati o agonizzanti sul parabrezza, e strisce pedonali, incroci pericolosi, una vecchia con la borsetta nera, lucida, e dei fiori, col vuoto negli occhi inchiodati nel capochino ed uomini con la ventiquattrore, sagaci, pronti, rapaci, tutto il giorno, precisi, patinati, pieni d'orgoglio nello sguardo alto, ma altro, superiore, e diverso, ragazzi con lo zaino, dal passo strascicato, tutti con la stessa espressione e gli stessi pantaloni, prodigiosamente consumati nello stesso convenuto punto, occhi affissi in mezzo a facce del colore di chi la notte non s'avvicina al sonno, del colore stesso dei marciapiedi, duplicati nelle vetrine noiose, sfavillanti ma noiose, morte, morte di vecchiaia prematuramente, sotto ai piedi dei palazzi freddi, implacabili, fieri della loro effimera eternità, ticchiettii intanto, ticchettii, sono i tacchi, i mille tacchi, che battono il tempo a questa marcia mattutina, i tacchi, i tictac che tutti costoro hanno nella testa, dentro e fuori dai posti, dai posti da raggiungere, da quelli da cui partire, ed un portone a vetri che si spalancò improvviso, da cui sbucarono due bambini che gridavano qualcosa, un nome, rincorrevano qualcosa, non era un pallone, un pallone non lo chiami quando ti scappa, rincorrono qualcosa lì davanti a loro, a lui alla guida, ed un tonfo, un tonfo che lo risvegliò, che lo scosse dal suo privato torpore, riportandolo al torpore di tutti, Ecco a cos'altro servono i paraurti, rispose in automatico a quella muta domanda mentale:cos'è stato?che si fa in questi casi? mentre proseguendo la corsa osservava nello specchietto retrovisore un gatto in mezzo alla strada, disteso su di un fianco, con la testa aperta ed il petto che si gonfiava come un mantice, sempre più veloce, e poi quei due bambini che si chinano su quel suo corpo che aveva terminato la sua fuga, ed uno che guardava verso di lui, anzi verso il retro della sua macchina che procedeva, procedeva verso il parcheggio, da lì, poi, a piedi, al negozio di giocattoli, a cercare quel gatto di pelouche.

E su questo corpo smembrato, dal quale evapora la coscienza, dal quale fugge quello spirito che sa trovare e nominare ricordi nel magma del tempo che lo circondava, capace di guardare e riconoscere, su questo corpo vuoto di ciò che non saprà più dir di sé Io son questo corpo, su questo corpo, piangete. Su questo guscio che crebbe vitale grazie al cibo che gli deste, e alla sua superficie ancora calda delle vostre carezze e dei vostri baci, che lo resero unico ai vostri cuori, più desiderabile di qualunque altro, e vi resero unici al suo cuore, più desiderabili di qualsiasi altra cosa; su di lui, che è ora immerso in un tutto che non più desidera, su di lui, che ha ormai smarrito chi possa dirsi lui, piangete.Parcheggiata l'auto, stava per dirigersi verso il negozio di giocattoli quando si fermò improvvisamente e si girò verso l'auto, volendo constatare gli eventuali danni al paraurti, che risultava sì, fortunatamente illeso, ma strisciato di sangue. Osservando meglio notò che ce n'erano schizzi fin sul cofano. Non si poteva scambiare per fango o per vernice: era Evidentemente sangue. Certo non una cosa che fa una gran bella impressione. Comunque, ancora, si voltò, allargando le braccia e volgendo gli occhi al cielo, e s'incamminò finalmente verso il negozio, così riflettendo:Mia moglie sbaglia. E' cresciuta senza madre, ha dovuto tirar su cinque fratellini più piccoli, e per quanto lei ricordi tutto ciò come un Eden d'amore e tenerezza, sacrificio e santità, le è venuto su questo carattere storto, un carattere da madre bambina, da adulta incompiuta, con in più questo suo senso di responsabilità esagerato, incontrollabile, frustrante, per cui ogni cosa che vede storta nel suo giro d'orizzonte, lei cerca di raddrizzarla, sente di dover impegnare tutta sé stessa a questo solo scopo, che tocca proprio a lei, poi le scintillano fuori questi periodi di crisi, danno fuoco a tutto, intorno, è questa la verità, così: muore il gatto ed i figli non devono sapere, cosa accadrebbe se adesso una tegola cadesse da quel tetto lassù e m'ammazzasse? Cercherebbe un pupazzo che m'assomigli? O tutte le sere starebbe a dirgli: papà torna, torna, fino a quando non diventerà nonna? Meglio va a quei bambini a cui gliel'ho investito il gatto, loro adesso lo sanno che Babbo Natale non esiste, non gli serve nessuno che gli vada a cercare un pelouche, quelli ora sanno, ed in futuro avranno meno da soffrire. Che magari, poi, sapevano già tutto, magari sono orfani, nel qual caso gliene dovrebbe fregare ben poco di un gatto, o forse hanno dei genitori odiosi e sperano soltanto di diventarlo presto. Perché si possono odiare anche i genitori. Si possono odiare i figli? E normale che gli si voglia bene, è naturale? E' inevitabile amarli solo per una questione di sangue o... è un dono? Ma se è un mostro chi li uccide, è un santo chi li ama. Quindi non è normale, o è tutto normale. Oppure li amiamo perché di tutto ciò che fanno capiamo i motivi, perché leggiamo ogni loro azione come inevitabile conseguenza del loro passato, ma allora, basandoci su questa presunzione, sarebbe naturale amare tutti, e perché non lo si fa? Perché presumiamo che gli altri interpretino la propria vita piena di giustificazioni valide per danneggiarci. E' quindi questo un argomento che non vale nulla, un piùuno menouno. Crediamo di amarli solo perché sono figli nostri, non pensiamo che sia possibile scegliere, semplicemente non pensiamo. Li amiamo per partito preso, a scatola chiusa, giusto perché c'è sopra scritto il nostro indirizzo, perché hanno impresso in fronte il nostro regale sigillo, non consideriamo alternative e loro, intanto, magari, ci detestano. Ci odiano forse senza saperlo davvero, ma provano disagio, sentono un malessere con noi, perché noi non gli piacciamo, non gli piace la nostra pelle, il nostro odore, e nonostante questo si sentono in dovere di amarci, poveri stronzi. Oh, se ammettessero di odiarci quanto starebbero meglio, quanto sarebbero felici dandoci la morte. Forse stanno male perché sentono che li amiamo senza averlo scelto, che li amiamo senza che ce ne siamo mai innamorati.



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