In albis -5-

Da Nivangiosiovara @NivangioSiovara

Scaricati i grigi, angosciati e muti bambini all'ingresso della scuola, la madre fece ritorno a casa. Le girava la testa. S'arrampicò, sì, letteralmente s'arrampicò su tutti i gradini di quelle straordinariamente lunghe scale, aggrappata saldamente alla ringhiera. Riflettendo sulla quantità di polvere che la sua mano intanto raccoglieva, alla totale mancanza di sollecitudine della donna assunta per la pulizia di quegli ambienti comuni dai condomini, scelta fatta per favorire una parente dell'amministratore, alla quale anche lei aveva ceduto superficialmente, come la polvere, senza riflettere più di tanto e della quale ora si pentiva. L'igiene... l'igiene? Quasi tutte scaglie disintegrate di morta pelle, la polvere, ed era anche colpa sua. Se ne pentiva, se ne pentiva, ora, sentendosi orribilmente impolverata e pesante, pesante e sudata, sudata e china, il fiato corto, cortissimo e quel vicino che incrociò sul pianerottolo, che la guardò sorpreso e spaventato, che non ebbe neppure il coraggio di chiedere: Che succede? Sta male? In quello sguardo lei si vide come in uno specchio, miserabile e finita, e verso di lui non rivolse neppure un trequarti di saluto. A quelle domande che non vennero pronunciate, lei avrebbe saputo cosa rispondere: E' la polvere, la polvere. Ed è anche colpa tua. Di tutti. Della nostra pelle. Stiamo tutti cambiando pelle. E' stagione. Dobbiamo cambiare la donna delle pulizie. Poi: la mano che si staccò dalla ringhiera. Sempre più chino in avanti, il capo pesante. L'altra mano più su, all'altezza della testa, a far presa per la scalata, agganciata al bordo del gradino che verrà. Un piccolo movimento per volta. In ginocchio sullo zerbino di casa. Chiavi nella toppa. Pausa. Riprendere fiato. E' facile. Che le stava succedendo? Oh, lei sì, se la pose questa domanda. Un giro di chiave. Si rispose: E' la morte di Mukil, mi ha stroncata. Avrei bisogno di camminare in un luogo aperto, soleggiato. Un altro giro di chiave. La morte di Mukil ohhh è quella cosa che si dice che si dice la goccia che fa traboccare quella cosa. Bisogno di riposare, altroché, a camminare c'andrò in un altro momento. Ma quale vaso? Piegare la maniglia: come fare a braccio di ferro e vincere. E' necessario ripulire per bene il bagno, altro che riposare, ecco quale vaso. Spingere la porta con la testa, aprirla con il peso di tutto il busto. Successe qualcosa del genere quando le dissero di essere incinta del secondo figlio, non le successe qualcosa del genere perché era incinta, le successe perché glielo dissero. Il vaso che sono io. Cadere faccia avanti, stesi sulla soglia.Svenuti.E vedere questo:Finalmente ecco il grande prato verde. Il sole è caldo, sensuale. Tira un venticello fresco, stimolante. Cammina, lei, a piedi scalzi sull'erba. No, è tutta nuda. Cammina, s'arresta e salta, e cammina, e salta, ingenua, pura, libera. Amorale. L'aria non ha odore, ed è un odore buonissimo. Degli insetti le volano tra le gambe, la solleticano con le loro ali di velluto. Pensa di poter volare. Salta. C'è un albero, laggiù. Se riuscisse a staccarsi per più di un secondo da terra, la luce la raccoglierebbe e la porterebbe nell'aria. Corre verso l'albero. Sul tronco vede incisa una lettera. Ha la fuggevole impressione – non lo vede bene, solo le sembra di vedere – che ci sia un uomo dall'altra parte del tronco. Controluce. Silenzioso e fermo. E per quanto lei faccia per girare intorno a quell'albero, sente che lui si trova sempre dalla parte opposta e sempre controluce. Va rannuvolandosi. Una schiera di uomini e donne, lontani, all'orizzonte. Forse immobili. Sì, c'è una lettera, più lettere, sul tronco, formano una parola, la vede, lo sa, quella parola èIncomincia a far freddo. Di bianco. La presenza che le pare d'intravedere, è vestita, e di bianco. Il vento diventa gelido e lei si sente improvvisamente pesante, ora è coperta da un vestito fatto di ciottoli. Incombono nuvole nere, gravi. Sente il suo stesso corpo farsi di pietra. Prova paura. Paura. Per reazione, per difesa, da sasso che è, si trasforma in torre. Una torre alta ed impenetrabile. Il vento la fende, impotente. La prima pioggia batte e rimbalza. Un fulmine la colpisce. Ode il tuono, quella massa di persone all'orizzonte che gemendo si mette in moto e, stridendo, scricchiolando orribilmente si fa tutt'intorno alla torre, la venera. Ora la torre desidera tornare ad essere pietra, e s'abbassa al livello di quella gente, prima, e poi ricomincia a scendere, rimpicciolendosi sempre di più. Ma la cosa le da piacere, e non si ferma. Non le basta l'esser sasso, al suolo, ma penetra la terra e tutto quel pieno che prima era torre in superficie, ora vuoto, è un pozzo profondo, che scalfisce le viscere più interne del pianeta. E che la pioggia rapidamente riempie, e nel quale le schiere gementi si bagnano e si lasciano annegare. Fra i molti corpi le pare di riconoscerne alcuni: quelli dei suoi famigliari. Cadono sul fondo di lei, che, non dimentichiamolo, quel pozzo è lei, ch'era torre ed era stata sasso ed era stata donna ed era stata madre e figlia e feto ed idea e misteriosa potenza. E da quel fondo dove la raggiungono, che ora è misteriosamente ricoperto da un banale zerbino con la scritta Benvenuto, la raccolgono, la sollevano e la depositano altrove, sul morbido.

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