Magazine Arte
E’ un invito a entrare nel suo universo la tavolozza vibrante di colori e di pastosità, là dove pulsa energia che imprime al gesto pittorico un movimento dirompente e insieme delicato, proprio di chi misura l’espressione di emozioni e passioni profonde con la consapevolezza che arrivare al cuore delle cose poi genera reazioni imprevedibili, in se stessi prima di tutto. Moti dell’anima che sono i luoghi cari di un altrove, di una segreta intimità che si vuole appena percepita, suggerita nel suo mascheramento replicato in forme e luci sempre abbaglianti, in descrizioni della realtà simbolicamente evocative, nei colori antinaturalistici, di un mondo tutto da scoprire. Questo per dire che leggere i dipinti di Ludmilla Radchenko non può significare rimanere sulla superficie delle cose: oltre l’effetto emotivo che genera partecipazione piena da parte dello spettatore, oltre i colori sgargianti, la pennellata decisa e le immagini che catturano per la loro immediatezza di significato, oltre tutto ciò vi è la felicità di scoprire nei suoi dipinti, nella relazione tra l’intera composizione e i suoi dettagli, un senso ulteriore, un livello di contenuto più vero e saldo che fa della Pittrice una presenza certa, oggi, nell’Arte. E per lungo tempo di Arte si è alimentata Radchenko –come sappiamo dalla sua biografia- e per un analogo lungo periodo ha lasciato che essa trovasse ancora una volta le sue motivazioni sotto lo scintillìo dei palcoscenici della società dello spettacolo della quale è diventata presto una interprete riconosciuta e apprezzata, e ha fatto di tutte queste esperienze (che si arricchiscono di significative partecipazioni in pellicole cinematografiche) un patrimonio che si condensa nell’intera sua produzione artistica. Un patrimonio che agisce come un pattern che emerge a volte in piena luce come nei soggetti –e nei modi in cui riaffiorano alla memoria- dei ritratti di Salvador Dalì, di Vincent Van Gogh o in quelli di Andy Wharol che ci dicono anche –nella tecnica di sovrapposizione di fotografia, pittura e décollage- della ripresa dei modi di alcune avanguardie del ‘900; altre volte nel calibrato dosaggio di stili che, evocati tutti insieme sulla tela, danno vita ad una miscela esplosiva e formano la cifra della personalissima e originalissima espressione artistica di Ludmilla Radchenko. Post-Impressionismo, Sintetismo guaguiniano, Simbolismo espressionista, Surrealismo, Situazionismo, Nouveau Réalisme, Mec-Art, Street Art declinati in chiave Pop: una scelta, questa, che, mentre ci conduce a prestare attenzione al reale nelle sue forme più consuete (la strada, le automobili, gli oggetti di consumo, le icone e i consumatori di icone), mentre, quindi, propende per un codice comunicativo schietto –se non addirittura per il gergo- poi, scopriamo, si arricchisce di un raffinato vocabolario e ci offre una narrazione realistica e visionaria insieme del nostro tempo e di noi stessi. E’ una pittura di Ritmo e di Tensioni, di Idee e di Sentimenti che erompe dentro di noi come un grandioso spettacolo pirotecnico, una pittura impegnata nel reale e che, se attraverso i procedimenti del collage, del décollage (nella lezione di Mimmo Rotella, e dei New Dada, e anche per certi modi dell’Art-Typo e delle sovrapitture), dell’assemblage e del dèplacement, mette al centro dell’arte proprio l’oggetto preso a prestito dall’universo del quotidiano, allo stesso tempo nega fermamente la scomparsa dell’Artista dal suo prodotto che riflette quella società dei consumi e il paesaggio urbano della contemporaneità. Se Ludmilla si serve di questo repertorio pop e sembra aderire al concetto della “realtà che contamina l’arte”, lo fa per trovare un veicolo comunicativo immediato che spieghi che la verità è un’altra: è lei, l’Artista, a governare il reale, ad assegnare un Valore alle cose nel mentre ci dice –con la vitalità creativa che le è propria- di una condizione esistenziale che sopravvive tra i falsi miti del consumismo, nel mentre ci dice dell’importanza di conservare e far agire una coscienza estetica ed etica. La sua pittura non è semplice combinazione di oggetti (come sono invece i Combine paintings di Rauschenberg): l’Artista è attiva nell’elaborazione della creazione così da rovesciare, servendosene, un assunto della Pop Art: in lei creatività e critica hanno la supremazia sul reale. In questo modo Radchenko traccia un nuovo rapporto tra Arte e Vita, nel prevalere dell’esperienza in virtù della quale la Pittrice riprende (e invita anche noi a farlo) il dominio sull’oggetto e rivitalizza l’elemento lirico e visionario, dichiarando al contempo irrinunciabile la funzione della soggettività. Certo, nei dipinti di Ludmilla rimangono, dell’estetica Pop, il ricorso all’immagine di recupero, l’utilizzo della fotografia per preparare l’immagine che sulla tela sarà poi modificata con la pittura, e l’iterazione della figura (mai uguale l’una all’altra e, comunque, fortemente connotate in particolari dimensioni esistenziali come, per esempio, le tre immagini di “Monna Lisa” -in “Mona Pop”- che propongono della stessa modella leonardesca immagini coniugate, come in una commedia degli equivoci, in tre differenti ‘tipi’: la “ragazza cattiva” (“Monnalisa bad girl” il titolo del dipinto che, però, nella scritta sovrapposta al ritratto che dice “io non sono cattiva” richiama con evidenza al tritacarne dei mass-media e della morale benpensante), quella “costosa” (“Monnalisa Expensive”) e, infine, “Monnalisa I’m not stupid” –che chiude il ciclo-, e che simula disponibilità –e la cui inclinazione del busto sembra un invito ad accedere al suo mistero- ma avverte che per entrare nel suo cuore (un cuore rosso disegnato sul seno) bisogna essere capaci di conquistare la chiave che lei tiene chiusa nel palmo della mano destra.
Poi il percorso di Ludmilla ci porta verso regioni interiori, verso una ricerca di assolutezza condotta ancora attraverso l’indagine sul reale: realtà come conoscenza del mondo che è fuori e dentro di lei. E’ contenuto sentimentale che aderisce alla condizione umana; è dato emozionale restituito dalla materia spessa segnata da oggetti incollati, da pezzi di tessuto ritagliato che sembrano petali di fiori, dall’addensarsi in grumi dei colori, dalle colature, dalle figure sempre ben contornate anche solo per suggerire l’effetto di una sagoma ritagliata, dalla densità della resina, dalla vernice fluorescente che sposta lo sguardo e crea nuove percezioni visive e nuove interpretazioni.
L’Arte di comunicare di Ludmilla Radchenko: letture
In questo universo anche il cielo, qualche suo raro scorcio, si adegua ad un vitalismo di matrice post-impressionista che se riflette la drammaticità della visione pure è proiezione della intrigante complessità di una esistenza: nessuna ambiguità, quindi, nel cielo grigio-chiaro densamente materico -carico, sembra, di oscuri presagi o di una enigmatica avvertenza a non fermarsi all’apparenza di un bagliore tutto mediatico- della “Gioconda” (nella Collezione “L’arte di essere donna”, e uno dei lavori oggetti di un recente furto dal laboratorio dell’Artista) che non rimanda, pertanto, solo alla sensualità di un potere seduttivo tutto terreno ostentato dal soggetto, che in questo caso ha le fattezze dell’Artista; come nelle diverse tonalità del rosso -dallo scarlatto al veneziano- che incombono, attraversati, ai lati del dipinto, dal fitto reticolato di funi di acciaio di un ponte (un motivo che pare declinato sull’immagine di gambe che indossano calze a rete) in “Smart Kanye West” (Collezione “Star System”): il rapper georgiano ritratto in primissimo piano in una espressione di pieno appagamento dei sensi rafforzato dal sigaro fumante che tiene tra le labbra aperte; o nel cielo dai toni rosati e violetti che in “I love freedom” (già in “N.Y.C. Underground” e ora in “Oltre Collection”) addolciscono la monumentale, robotica e spettrale presenza di una Statua della Libertà dagli occhi verdi brillanti –seppure umanizzata da un cuore rosso acceso- inserita nel vortice di un paesaggio urbano newyorkese che cattura nella sua spirale oggetti, macchine, palazzi, insegne (immagine che rappresentata dal basso verso l’alto rende ancor più potente l’effetto di ineluttabilità del reale, che sembra dover precipitare da un momento all’altro); ancora, può diventare, il Cielo, un artificio, proiezione del sogno o del baluginare della coscienza come in “Waiting” (Collezione “Pannelli”): un microcosmo interiore acceso da luci gialle abbaglianti che sfumano nel rosso e che introducono ad una dimensione di sospensione, di allontanamento sia dal dato soggettivo psicologico sia da quello oggettivo empirico: così “a volte penso, a volte no” -ci informa la scritta sovrapposta al dipinto- induce ad una epoché, una stasi del pensiero in cui è il mondo della vita ad affacciarsi, disordinatamente tradotto in immagini la cui sola forza è quella del materializzarsi in flusso di coscienza che, nel viso assorto del pagliaccio in primo piano, nella sua imperturbabilità, ci suggerisce che il circo della la Vita non è dissimile, a volte, dal cortocircuito delle emozioni. In ogni caso, vediamo, è il Cielo lo specchio della vita terrena, non il contrario. Il Cielo si colora dei colori della Vita, dei sentimenti, dei turbamenti -come nella lezione di Van Gogh; Cielo e Terra sono la medesima cosa: il dialogo così non è più tra l’essere e il soprannaturale ma dell’essere con se stesso: ciò che avvalora nell’uomo, sembra dire Radchenko, la sua tensione peculiare ad elevarsi, non soddisfatto di essere rappresentato in questa sua condizione di soggetto della contemporaneità, di essere parte di quella cronaca che diventa immagine di un’epoca. Per nulla understatement Ludmilla esalta una libertà e una autenticità d’espressione –attraverso rapidità e padronanza del gesto pittorico- che nello stesso tempo in cui tendono a riscattarsi dalle inquietudini della società moderna (trovando nella luminosità del colore il corrispettivo di una inesausta fiducia nella capacità dell’uomo di affrontare il tempo presente, di non arrendersi al passato né di sperare in un avvenire utopistico) ne sottolineano le lacerazioni e le angosce così da esercitare -nei suoi dipinti e negli strumenti che adotta per comporli- un anticonformismo che fa piazza pulita delle preoccupazioni morali ed estetiche; uno stile che rompe con lo schema costrittivo della pittura tradizionale e, nel suo personale avanguardismo, ci dice che è possibile giungere ad una conoscenza di un mondo così caotico e complesso raffigurandone le grandezze e le miserie spogliate di qualsiasi commento. Ecco così nella loro professionale naturalezza le ragazze di vita, dai volti pallidi e dal trucco pesante e disfatto, in mostra nel quartiere ‘a luci rosse’ di Amsterdam, mentre riverberano, invece, il bagliore scarlatto di una lampada il viso e il corpo seminudo di un’altra ragazza, nello stesso dipinto, ripresa all’interno della sua vetrina (in “Red light District”, collezione “Amsterdam Temptation”); ecco ancora altre due ragazze in “Equal” (“N.Y.C Underground”) soggetti/oggetti di una stessa prigionia che le rende simili, anzi uguali, anche nella fisionomia e nel vestiario, e per questo sono ritratte in posa speculare, proprio come davanti ad uno specchio, proprio come se fossero una sola persona che si osserva senza riconoscersi (quante analogie, poi, tra questo dipinto e quello di Frida Kahlo (una, abbiamo appreso, delle Muse ispiratrici di Ludmilla radchenko) intitolato “Le due Frida” nel quale l’Artista messicana –di cui scriviamo più avanti- si ritrae in due immagini di sé speculari, unite tra loro non solo dalle mani che si stringono ma da un tubicino che porta il sangue sano dal cuore della Frida moglie e amante di Diego Rivera al cuore malato dell’altra): una di fronte all’altra le due ragazze di “Equal” sono legate tra loro da una catena che le tiene per i polsi, incapaci di trovare la chiave giusta –tra quelle, tante, di varie forme e dimensioni disseminate e incollate sul dipinto- per liberarsi e per curarsi le ferite del corpo (una ragazza sanguina dalla bocca) e dell’anima. Ed ecco, finalmente materializzarsi una sorgente di pura luminosità in “Flower King” (ancora “Amsterdam Temptation”), nell’autoritratto di Van Gogh illuminato da una lampadina rossa sospesa sulla sua testa: nello sfondo le attrazioni di Amsterdam (una ruota, dalla quale sembrano precipitare figure umane, insegne che promettono svago a buon mercato…), in primo piano piccole piante e fiori di una casta semplicità bordano il lato inferiore del dipinto e quasi avvolgono il Maestro. Ma è nel ritratto di Van Gogh che Ludmilla ci consegna il suo messaggio: ella veste il grande Artista olandese di un abito che riproduce, che è, l’immagine della facciata di una chiesa o di una cattedrale sulla quale si aprono grandi bifore. E’ profonda la suggestione che si ricava da questa rappresentazione: se il viso del Pittore si staglia con forza, grazie ai caldi e carichi colori giallo e arancione del viso, e sembra staccarsi dalla tela quasi come se volesse uscire da quel contesto così equivoco (e non è un caso che questo autoritratto venga posto dalla Radchenko al di qua di una porta ad arco in mattoncini, all’ingresso della Città), la chiesa/cattedrale di cui egli è vestito non è solo la memoria del controverso rapporto che Van Gogh ebbe con la religione (da giovane, ricordiamo, egli prese i voti ed esercitò intensa attività di missionario per poi allontanarsi dall’esercizio del suo ministero perché aveva fatto esperienza di atteggiamenti, da parte dei suoi superiori, che egli ritenne imperdonabilmente ipocriti), quell’immagine della chiesa/cattedrale che Radchenko gli fa indossare come un abito è il segno di una fede nell’Assoluto che –nonostante, appunto, le esperienze negative- sopravvive nella sua anima, nelle forme di una religiosità tradotta nella Creatività e nell’Arte, veicoli di espressione di quella fede che gli riscalda il cuore come promessa di salvezza. Metafore del Mondo: ma con quale vitalità e potenza comunicativa e quale capacità di attualizzazione ce le porge Ludmilla!… Non si è citato a caso Van Gogh: l’Artista siberiana ne dichiara il significato nella sua produzione ritraendolo più volte in diversi contesti. Adesso è l’immagine di Vincent che occhieggia da una finestra in “Exstasy work life” (nella collezione “Amsterdam Temptation”), ed è una delle immagini dell’Artista olandese più commoventi: Radchenko propone l’autoritratto in cui Van Gogh si raffigura con una vistosa fasciatura che gli copre l’orecchio destro, autoamputato dopo il noto litigio con Gauguin. Questo autoritratto appare, nel dipinto della Radchenko, appressato ai vetri chiusi di una finestra il cui telaio bianco e molto marcato suggerisce le sbarre di una prigione o di una casa di cura, luogo tristemente noto all’Olandese. Lo sguardo del pittore è volto verso l’esterno della casa la cui facciata in mattoncini lucidi blu cobalto è percorsa da graffiti e apposizione di oggetti della più banale ordinarietà (come vuole la Pop Art), oggetti di consumo e domestici prelevati dalla vita quotidiana: una bicicletta gialla, rifiuti di lattine ammaccate di Coca Cola, insegne, piccoli dadi… fino a inverare un’atmosfera sordida, respingente, resa ancor più violenta –evidente il riferimento al titolo- dai colori brillanti. Se, allora, è chiaro -così negli elementi come nella raffigurazione e nella tecnica- lo spirito Pop che attraversa il dipinto, pure Radchenko invitandoci a riflettere sul significato da attribuire alla presenza del grande Artista olandese ci vuole dire altro: egli ha la funzione di un nume tutelare posto com’è alla sommità della casa, vicino al cielo che non si vede, quasi al margine superiore del dipinto; di una presenza rassicurante, e non solo di un testimone del nostro tempo, sopraffatto dall’esistenza ma toccato dalla Grazia, che è proprio lì, nel dipinto della Radchenko, accanto a lui, nella statuetta dell’Angelo che sovrasta il portone della casa. Un Angelo protettore invocato come in un esorcismo che deve tenere lontani esseri abbietti, luciferini come l’inquilino del piano inferiore, anch’egli ritratto dietro una finestra chiusa, il cui orrendo viso rosso, scavato, è un teschio deformato. Non è poi errato aggiungere che essendo Van Gogh e l’essere mostruoso del pianoterra abitanti della stessa casa, essi condividono il destino che è comune a chi, auto emarginatosi dal mondo, deve sottoporsi ad un percorso di analisi di sé per elevarsi: anche in questo senso la figura dell’Angelo è emblematica in quanto guida spirituale in questo viaggio nella complessa poliedricità di un’anima.
Ecco come, nei dipinti dell’Artista siberiana, il basso e l’alto si compenetrano, ecco come la vita pare compiacersi –o forse implorare- di una divina accondiscendenza. Ecco come Radchenko riesce, con la sua Arte, a riconciliarci con la Storia e con noi stessi, narrandocela con tratto irriverente e coraggioso, cogliendo quanto nel beau geste (che è liberazione dalle regole e dalle convenzioni) delle sue eroine, dei suoi eroi, si connota come un significato di Verità e, quindi, di Bellezza. E narrazione di pagine della nostra Storia sono i ritratti di donne (nella Collezione “L’arte di essere donna”) che continuano a colpire il nostro immaginario accomunate dall’essere state esse stesse protagoniste della loro epoca e che ci vengono presentate da Ludmilla Radchenko –che presta loro le proprie fattezze- con scanzonato anticonformismo: imperatrici, criminali, mistiche, leaders, icone divorate dalla loro stessa icona, tra loro assimilate non solo per l’essere state artefici di imprese che le hanno consegnate all’immortalità ma per la bellezza dei loro tratti e per l’erotismo che da essa promana e dal quale pure la loro vita è stata anche fortemente connotata. Donne delle quali si può dire anche che hanno fatto grandi i loro uomini anche con l’esercizio della loro seduzione.
Così Caterina II di Russia, spietata negli affari di guerra come generosa nel dono interessato di sé che ella ha concesso ai suoi tanti amanti, viene rappresentata da Ludmilla Radchenko nel solco dell’iconografia classica nella quale la zarina è stata più volte raffigurata: nella pomposità e ricchezza degli abiti come della scenografia nella quale spicca il drappo rosso che scivola mollemente sul pavimento dal tavolino sul quale è appoggiato. Ma nel ritratto della Radchenko l’imperatrice è seminuda: i segni del potere politico (lasciati, o impugnati, con noncuranza: la corona tempestata di pietre preziose è appesa ad un angolo superiore della spalliera del trono come fosse stata dimenticata lì durante uno dei suoi appuntamenti galanti, il mantello di ermellino è poco più di una veste da camera che le scopre il seno e le gambe…) sono un giocattolo nelle mani di Caterina: è forse nel suo corpo offerto, stretto da un busto che ne modella le forme -ci interroga la Pittrice con divertita impertinenza- l’impegno della zarina a costruire una immagine di sé e del dominio che ella ha esercitato? Il corpo nudo di tutte le donne ritratte in questa Collezione è simbolo. Ma quando poi ci si sottrae a questi visages du nu e si pone attenzione all’ambiente nel quale queste donne sono inserite e alle pose nelle quali esse sono ritratte, risalta la teatralità della messinscena, esasperata –per ognuna di esse- dall’accuratezza dei dettagli che le colloca sì nel loro vissuto e nella loro rispettiva epoca ma che le rende del tutto simili tra loro proprio nella sottolineatura dell’impatto che esse esercitano ancora in noi. Una teatralità che funziona anche nel ricordarci dell’esperienza-limite di cui esse sono state protagoniste all’interno di una tragica comédie humaine sempre giocata da Radchenko sul filo di una ironica stravaganza. Così il nudo regale di Elena di Troia riduce a mero dettaglio, del tutto spogliato del suo significato, il dramma che esso ha cagionato: il cavallo cavo di legno del quale Ulisse si servì infine per penetrare nella città assediata è raffigurato sullo sfondo del dipinto -nel cielo pastoso, goghiano nei colori e nelle vibrazioni- lontano dalla figlia di Zeus e di Leda, che occupa il primo piano della tela. Così Carlo VII incoronato re d’Inghilterra è una figura piccola e spogliato della sua autorità ritratto com’è in ginocchio ai piedi dell’alta pira sulla quale sta per ardere viva colei che, per lui, ha dato la vita: Giovanna d’Arco che, al contrario, è imponente, e nuda, al centro della raffigurazione del suo martirio. Evita Duarte Peron si affaccia da un balcone (quello della Casa Rosada) per porgere, a seno nudo, l’ultimo teatrale e sensuale saluto alla folla, che immaginiamo acclamante, di donne dei ghetti di Buenos Aires e di descamisados: Radchenko ci mostra Evita nell’atto di sporgersi, appunto, dal proscenio di un teatro per recitare ancora la sua parte di donna che si riscatta da una condizione di inferiorità sociale data dalla sua nascita illegittima in un ambiente familiare di estrema povertà fino a diventare candidata alla vicepresidenza del governo argentino e moglie del presidente (un percorso che inizia da ragazza, dai microfoni della Radio nazionale nella quale ella bruciò in fretta tutte le tappe di una fortunata carriera –che per prima le diede una straordinaria notorietà- grazie anche alle relazioni che intrecciò con molti potenti uomini dello spettacolo, prima di diventare la donna che, con il suo intuito politico e le sue importanti imprese ‘nel sociale’, contribuì alla grandezza di Peron e del peronismo).
“Dipingo soprattutto me stessa perchè sono la persona che conosco meglio”: sono le parole di Frida Kahlo, rilasciate in una intervista, che Ludmilla Radchenko deve aver ricordato quando ne ha fatto il ritratto. La grande pittrice messicana è raffigurata mentre, appunto, dipinge se stessa su una tela che le sta di fronte sostenuta da un cavalletto. Accovacciata sul pavimento del suo studio, luminoso e dai colori brillanti, nella “Casa Azzurra” in Messico, Radchenko ritrae l’artista nuda nella parte superiore del corpo con il viso rivolto allo spettatore: lo sguardo intenso e ironicamente ammiccante, e la posa, ci restituiscono con grande efficacia la misura del temperamento della pittrice messicana la cui vita, sebbene segnata da profondi tormenti che le minarono il corpo e l’anima fin da ragazza, si è svolta, da una parte, all’insegna della riluttanza alle convenzioni sociali sostenuta da una tensione morale e da una fede ideologica che ella manifestava a favore dei più poveri messicani, peones e indios, dall’altra nell’amore di sé e della vita espresso dalla sua creatività artistica che la avvicinò –anche nella forma di relazioni sentimentali intrattenute con poeti, pittori, intellettuali (amanti che non furono solo il contraltare ai ripetuti tradimenti ai quali fu sottoposta dal marito pittore, e tombeur de femme, Diego Rivera)- agli ambienti avanguardistici europei dell’arte primonovecentesca. E’ la parte mondana e giocosa di Frida che Radchenko ci trasmette in questo ritratto: il senso di quella esclamazione, “Viva la Vida”, che lei scrisse sull’ultimo suo dipinto, una natura morta di cocomeri, pochi giorni prima di morire. Ed è forse anche con sentimento di humana pietas che Radchenko le regala, in questo dipinto, quel corpo perfetto che Frida Kahlo non ha mai potuto avere (almeno dall’età di 17 anni) sebbene esso non abbia mai potuto reprimere la realizzazione del desiderio erotico. Di messinscena, ancora, si tratta nel dipinto che ritrae Cleopatra, unico ritratto di donna (insieme con quello di Bonnie Parker) accompagnata da una figura maschile. Ma se ha un senso forte la presenza di Clyde, compagno di Bonnie nel dipinto omonimo, al contrario nella tela che ritrae la Regina d’Egitto l’uomo non rappresenta né il potere del maschio né l’oggetto (o il soggetto) del desiderio: è piuttosto il decorativo (anche perché dal fisico palestrato) complemento ancillare. L’Artista rielabora una scena tratta dal film “Cleopatra” del 1963 di Joseph L. Mankiewicz: Liz Taylor –protagonista- è sdraiata, nuda, su una chaise-long, e, prona, si fa massaggiare da una schiava. L’uomo nel dipinto dell’artista siberiana ha la medesima funzione ornamentale dell’ancella: vi è una distanza abissale tra Cleopatra/Radchenko –nuda e prona su una chaise-long- e il giovane schiavo (o forse condottiero: in virtù dei preziosi monili che indossa potrebbe essere Cesare, o Antonio, amanti della regina) che è accanto a lei, in piedi; entrambi, infatti, non si guardano e, invece, volgono lo sguardo in direzioni opposte (circostanza che rimanda alla verità di una unione di comodo, di un legame opportunistico, politico tra la regina della dinastia di Tolomeo e il suo omologo romano –che si risolverà nelle successive spartizioni di territori conquistati- che nulla concede al sentimento). Teatralità, ancora, ben misurata anche nel dipinto di Bonnie Parker, compagna di Clyde Barrow -meglio conosciuti come “Bonnie & Clyde”- con il quale ella costruì la fama di giovanissimi criminali, sanguinari e assetati di vita che quasi prefigurano i tipi della “gioventù bruciata” dell’America anni ’50/’60, ritratti da Radchenko nella posa spavalda, ingenuamente sfrontata che conosciamo dalle rare fotografie dei due protagonisti di una vita consumata nell’arco di pochi anni e della quale l’Artista mette in evidenza strumenti e simboli: l’auto con la quale fuggivano dopo i furti, il denaro mostrato con orgoglio, l’interno di un bar (o forse di uno dei loro rifugi/nascondigli) arredato con scaffalature colme di bottiglie di alcolici, e l’eros nella figura di Bonnie sdraiata sul cofano dell’auto –che è anche piano di un tavolino-, a seno nudo, in guêpière e calze nere velate… (sesso, droga & rock’n’roll…).
Poi, a volte, si placa questa aggressione benefica di tinte contrastanti e vivaci: solo quando qualcosa interviene a mutare la visione e il proprio stato d’animo, a imporre una distanza che richiama alla ragione. Così, ritornati negli USA, alla fine, forse, del viaggio nella Big Apple siamo adesso al di qua di un vetro (finestrino di un treno sopraelevato? Vetrina di un bar? Finestra di un grattacielo?) solcato da rivoli di pioggia. Da questa postazione, distanti dal clamore iridescente, osserviamo, in “Central Park Rain” (“N.Y.C. Underground”), la silhouette della metropoli lontana che appare come una nera barriera dai contorni frastagliati che si perde nelle tonalità del grigio: adesso il cielo è basso, è una campitura monocroma bianco-avorio che appena si colora di tenue indaco. Un senso di melanconia pervade il paesaggio metropolitano interrotto, ai margini superiori del quadro, sopra la striscia di cielo, dall’inserzione di un graffito che, a sinistra, disegna un improbabile viso –o il muso di un animale- munito di un grande orecchio aperto sulla città come a catturarne ancora le voci che immaginiamo molto deboli, affievolite dal rumore della pioggia, dissonanti armonie rese struggenti dalla nostalgia. E’ questa separazione dalla scena in cui si svolge la vita, insieme con questa presenza di una memoria della Street Art, che rende particolarmente delicato e vero ciò a cui assistiamo: il graffito posto ai confini del cielo non è solo l’aspirazione dell’Artista a mantenere costanti e intensi i contatti con ciò che percepisce come segnali di autentica esistenza e che sopravvive dentro la Città tra gli immensi grattacieli resi minacciosi dalla pioggia e dalla nebbia, ma è anche la serena presa d’atto, da parte di Radchenko, della funzione conoscitiva dell’Arte e, in questo senso, di una sua sublime qualità, perché essa, l’Arte, è là, nel graffito, posta nel luogo più alto, nell’estremità del cielo, laddove quindi si collocano esperienze, idee, moventi, sentimenti, emozioni a cui accordiamo la più grande importanza.
Conosce bene, anche, Ludmilla Radchenko, il procedimento che invera l’effetto dell’ horror vacui: lo notiamo in alcuni dei dipinti raccolti nella Collezione “London Times News” nei quali ogni spazio della tela è riempito di segni, di figure, di immagini. In “Camden town”, Piccadilly square”, “London Eye”, “London panic” dal sentimento del vuoto deriva il riempimento di ogni spazio disponibile sulla tela come rifiuto di ciò che non è possibile vivere. In questo senso l’horror vacui è anche paura del silenzio e affermazione, in questo caso, della incomunicabilità della metropoli con se stessa, perché fonte, essa stessa, di quella vertigine del vuoto che la fagocita e che Radchenko arresta in una congerie di inserzioni (insegne pubblicitarie, monumenti, segnali, oggetti del quotidiano), affastellate senza soluzione di continuità proprio per respingere l’effetto di quell’abisso che si apre. E se azzardiamo di una critica radicale portata dalla Pittrice verso alcuni aspetti della realtà contemporanea dobbiamo dire, grati di poterlo dire, che anche Ludmilla è toccata da una speciale Grazia: il suo essere in grado di portarci nel cuore delle cose dispensando meraviglie, restituendoci il sentimento di stupore davanti alla Vita come è in grado di fare una Donna prima di essere una Donna-Artista, con lo scopo dichiarato di scatenare passioni: dopo questa esperienza estetica non si è più gli stessi. E del suo essere Donna ci parla Radchenko in tutti i suoi dipinti raccolti in differenti nuclei tematici (le “Collezioni” che abbiamo incontrato) con i quali ci porge la sua visione della vita, in una metafora del Mondo. E’ un’azione sofisticata, perché esercitata con matura consapevolezza dei propri strumenti espressivi e della propria Idea, quella condotta dall’Artista, di istintivo smascheramento anche di ciò che vi è di patinato e grossolano del reale, e di riposizionamento delle certezze e delle aspettative del soggetto che desidera all’interno di una gerarchia ben disposta di valori. Peraltro, fin dalla sua prima Collezione “Angeli ribelli” Ludmilla chiarisce appunto le coordinate di un’arte non consolatoria ma critica: undici figure di donna che rimandano a undici qualità. Undici figure di donne angelicate: tutte munite di grandi e leggere ali i cui colori (differenti per ognuna di esse) ci dicono della loro situazione esistenziale, dei loro sogni, dei loro dubbi, delle loro speranze, delle loro certezze. Una fantasmagoria di caratteri femminili verso i quali l’Artista testimonia di una profonda solidarietà umana dispensandosi dall’emettere giudizi trancianti seppure senza rinunciare a farci orientare: se ella prende atto, infatti, del modello di vita cui hanno scelto di aderire i suoi “angeli ribelli” (un modello non sempre positivo secondo una scala di valori che separi il Bene dal Male), poi inserisce un particolare elemento in ogni dipinto (o una didascalia) per metterci in grado di leggerne il contenuto complessivo. Allora ci rendiamo conto che Ludmilla non ha voluto solo metterci di fronte ad una enumerazione di vizi e di virtù, ma, ancora, ad una operazione sulla realtà condotta attraverso una interrogazione interiore che scava nella natura umana nel solco del mito classico dell’”angelo caduto”: queste donne sono angeli che vivono tra noi: esprimono il desiderio, costretto nella finitezza, di eternità, foss’anche nella più umana tensione all’affermazione di sè; in questo senso ribelli verso una condizione che ne spegne le aspirazioni. Donne, ci dice Ludmilla, dotate di un animo gentile e solo occasionalmente distolte dall’esercizio della chance, pronte a spiccare il volo, a vivere e a sognare, com’è nella loro natura, e in quella di tutti gli esseri umani, appena riescano a liberarsi della zavorra che le tiene ancorate sulla terra.
Paolo Maria Rocco
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