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In arte veritas – Intervista a Nicola Fornoni

Creato il 05 febbraio 2016 da Wsf

rinascita la voce del corpo 2013

“Rinascita” – La voce del corpo 2013. Osnago

Benvenuto su WSF Nicola

Come ti senti di descrivere il Nicola Fornoni uomo e il suo “Alter ego” performer?

Tra Nicola Fornoni uomo e il suo alter ego performer non ci sono grandi differenze. Nicola Fornoni riesce, attraverso questa sua proiezione, a manifestare le idee, i desideri, le pulsioni, le divergenze e le convergenze che avvengono tra lui e ciò che lo circonda. La performance mi permette di essere libero di dire, di fare, di esprimermi perchè non ci sono blocchi e se ci dovessero essere, ecco che, necessitano di una loro frantumazione. Nicola Fornoni si impegna tramite la performance, che sfiora a tratti l’attivismo, di far recepire un cambiamento, una svolta nel pensiero dell’essere umano che osserva. L’alter ego è solo una manifestazione pubblica della figura privata di Nicola che si rispecchia in tutto e per tutto nelle sue performance. La distinzione tra uomo e performer non c’è se non nella libertà di espressione. Ciò che è concesso in un momento performativo non è concesso in un momento di vita pubblica.

Quando e in che modo, l’arte è entrata nella tua vita?

È entrata durante gli anni delle scuole superiori. All’epoca frequentai il liceo artistico seppur non avessi particolari doti nel disegno. Non sapevo neanche con che pigmento venissero fatti i quadri. Però l’arte mi appassionava tantissimo. Dopo la scoperta della pittura ad olio decisi di iscrivermi al primo anno di pittura all’Accademia SantaGiulia, qui, a Brescia. L’amore per la performance, però, è iniziato durante il terzo anno di accademia; prima aberravo tutto ciò che non fosse pittura o disegno. Ora penso, l’arte, sia una compagna fedele. Non potrei farne a meno.

Che cosa sono per te i corpi, spesso seminudi, che appaiono nelle tue performance?

Spesso siamo nudi completamente, a volte seminudi. Il nudo è sia messaggio sociale che canone classico. Mostrare un corpo nudo, per me, è un atto estetico, ideologico perchè ci vuole coraggio e libertà per riuscirci. Esporre un corpo nudo è segno di essere ed esserci con lo scopo di urlare la necessità di vivere. Il nudo è la completa esposizione di se stessi con paure, difetti, bellezze attraverso il movimento, le linee anatomiche e le azioni sia mobili che statiche. Rendersi vulnerabili di fronte al pubblico in modo completo ma allo stesso tempo sfidarlo. Il mio ed i nostri corpi nudi sono arma sociale. Ogni corpo ha un racconto, una storia, deve essere rispettato nella propria nudità al di là del pudore civile. Trovo che il pudore sia una limitazione dell’essere umano civilizzato. Allo stesso tempo, il nudo, fa parte delle mie esperienze di vita avvenute durante l’infanzia a riguardo di visite mediche. Terminando direi che stare nudi e spogliarsi sia un ritorno all’origine, sia per il piacere sia per linguaggio artistico, sia per istinti sessuali, passionali, primordiali seguendo sempre idee, situazioni etiche e pedagogiche. Il nudo infastidisce ancora? Il nudo è scandalo? Si, per molte persone è ancora così e per questo spero di riuscire, come hanno fatto molti altri prima di me, a far ammirare, recepire un senso estetico, educativo, ideologico profondo dello stare spogli in modo naturale.

Quanto è difficile rappresentare, mostrandole, le diverse sfumature private di se stessi?

È molto dura. Mi sto accorgendo sempre di più di questa difficoltà. Quest’anno è il quarto anno che studio e faccio performance e video\performance. La poetica del mio lavoro è incentrata sulla completa esposizione di se stessi in tutto e per tutto. Espongo la mia vita, con tutte le gioie, le sofferenze, i desideri, gli odi, le incazzature, le speranze. Il privato diventa pubblico a partire dal nudo, da ogni azione quotidiana rappresentata nella mia arte. Nei lavori che faccio attingo solo dalla mia vita, ultimamente, connessa all’analisi e alla collaborazione con Rain D’Annunzio. Collaborare con l’altro si recepisce, o almeno penso debba essere così, tutto dell’altro. Per far si che questo funzioni bisogna che ci sia simbiosi, anche questo è privato che diventa pubblico. La difficoltà maggiore nell’esporsi è riuscire a seguire una linee dritta a riguardo delle proprie convinzioni. Mai perdersi in commenti e critiche superflue che attaccano direttamente la persona. Molte volte questo avviene sia per l’anatomia, sia per la mia poetica, sia per il linguaggio. Quando criticano un tuo lavoro criticano tutto te stesso senza pensare che l’altro ha un suo vissuto e un suo universo. In fin dei conti mostrare tutto me stesso è quello che voglio fare, non ho paura, né vergogna. Parlare di me mi piace, parlare della mia vita credo sia necessario. Vorrei far passare dei messaggi molto forti esponendomi totalmente, spero che questo venga recepito.

A quale tuo lavoro ti senti più legato e perché?

Vorrei dire tutti ma probabilmente, se dovessi per forza scegliere, sceglierei Rinascita. Penso che i lavori a cui un artista si lega maggiormente sono quelli che si imprimono nel sottocute. Le performance per amarle bisogna viverle intensamente e per far ciò necessitano anche di un pubblico. Rinascita è stata la mia prima performance live e, come si suol dire, il primo amore non si scorda mai. Oltretutto è stata un’emozione devastante, un esercizio fisico, emotivo, una preparazione durata un mese, la provavo tutti i giorni. Vorrei fossero così tutte le mie performance perchè bisogna percepire la tensione nella pelle per un certo periodo. Rinascita collima l’urlo di libertà dell’individuo con lo spirito e il sentimento di un guerriero, Rinascita è uno schiaffo dato per far risvegliare la mente, una preghiera d’amore e di speranza. Non so se sia la meglio riuscita ma senz’altro credo sia quella a cui sono più legato. La realizzai per la biennale La voce del corpo tenutasi a Osnago (Lecco) nel 2013.

Quali artisti hanno maggiormente segnato la tua crescita artistica?

Devo dire prima tra tutti Rebecca Horn. Il mio avvicinamento, prima dal punto di vista teorico, alla performance art è iniziato nel 2012. Dalla Horn mi piace molto il suo discorso di limite del movimento, limite fisico attraverso l’oggetto e lo spazio. Da qui ho pensato poi a ciò su cui poter lavorare visto che la nostra vita, a chi più a chi meno, presenta dei limite già attraverso il nostro fisico e la nostra mente. Poi, Marina Abramovic e Regina Josè Galindo; Da quest’ultime la forza del corpo e della mente, il senso di attivismo sociale, la sopportazione del dolore, la preparazione mentale attraverso il metodo, la rigida disciplina nei confronti di questo lavoro. Soprattutto da Marina. Dal 2015, però, confido nell’inspirazione data da conoscenze reali che ho potuto incontrare per la mia strada: VestandPage, Roberto Rossini, Kyrahm + Julius Kaiser. Quando l’arte, la passione si mischia all’amicizia credo sia fondamentale per una crescita toccata con mano. Sono veramente molto riconoscente a loro.

Dove e come nascono tecnicamente le tue performance?

Ultimamente sto tenendo una specie di quaderno dove mi segno delle idee, della cose che possano poi influenzarmi. Le mie performance nascono dal quotidiano, dalle mie esperienze, da ciò che leggo in un libro, da ciò che ascolto. Possono nascere dappertutto ma è nella mia stanza e qualche volte nel garage che si concentra il fulcro della creazione. Con il tempo, poi, mi prenderò un piccolo spazio. La tecnica nasce, solitamente, da un progetto scritto che poi rielaboro nell’azione ma ultimamente, lavorando con Rain, può nascere anche da un’idea non concreta che si concretizza provando e sperimentando: conoscere attraverso l’esperienza del vivere la performance come un bambino che scopre il mondo sbattendoci la faccia in ogni singolo momento. La scoperta di un mondo nuovo data attraverso nuovi modi di percepirlo, cambiando solamente un senso, un arto con cui toccare le cose o recepirlo. Provare gli effetti di un oggetto attraverso il proprio corpo, entrare in simbiosi con esso, sentire il corpo muoversi diversamente, analizzare il freddo, il caldo, il molle, il duro, il dolore, il piacere perchè è questo, poi, che ci fa sentire vivi.

Che cos’è per te il corpo?

Sono sempre stato a contatto diretto con il mio corpo. Sembrerà una frase ovvia ma non credo lo sia. La maggior parte della gente non ascolta il proprio corpo ne quello dell’altro. Ho iniziato a conoscerlo a cinque anni, molto presto, attraverso il dolore, il sentire questa sensazione ben impressa sia fisicamente che mentalmente. Per me il corpo è tutto ciò che si vive, è la fedina penale della vita, una carta d’identità naturale dove puoi leggere tutto ciò che uno possa aver vissuto. Il corpo è dolore, piacere, spasmo, sofferenza, limitato e illimitato. Il corpo è sensoriale, è conoscenza, sapere, saggezza, perversione, orgasmo, respiro, vita. È un modo per dire sono qui, ora, adesso. Le nostre anatomie parlano, ascoltano entrano in contatto tra loro comunicando. Il corpo può essere limite poiché non può seguire la mente, non la può ascoltare, non può essere dove la mente vorrebbe che lui vada. Il corpo è un insieme di liquidi, di sostanze, di organi che non sentiamo così facilmente, non capiamo tutto ciò che avviene in noi come fosse un mondo sempre nuovo. Ogni giorno cambia, si trasforma, ogni giorno plasma differenti situazioni. Il corpo è fluido e sostanza. Nel mio lavoro lo intendo come strumento, limite, icona, incontro poichè la maggior parte delle volte il corpo non è singolo ed individuale. Il rapporto che può esserci insieme ad un altro corpo è unione, scoperta, conoscenza. Ci sono sempre state difficoltà nello scoprire il corpo dell’altro. Fino a poco tempo fa il centro dell’attenzione era il mio corpo, proprio per questo, ho voluto andare verso l’altro in modo istintivo, necessario. Nelle prime performance pensavo fosse condanna, martirio, espiazione, ora l’attenzione è posta soprattutto nella relazione, nel suo dolore, nella sua gioia, nella condivisione di metafore di odio, amore, come sentimento represso ed espresso attraverso un modo scientifico, medico, chimico, antropologico, naturale, primitivo, umano e animale.

Fornoni IN MEMORY OF LEILA ALAOUI

IN MEMORY OF LEILA ALAOUI – Nicola Fornoni 2016

Come e quando nasce il duo Nick&Rain?

I nomi cambiano per trovare un format ben comunicativo ed esplicativo. Inizialmente la mia collaborazione con Rain D’Annunzio la chiamai con lo pseudonimo NICK&RAIN ma, dopo vari ragionamenti, ho voluto definirla NICKeRAIN project. È solo una scelta di marketing per non confondere e per riconoscimento del marchio poiché molte volte lavoro anche da solo, o con altre collaboratrici. Ho conosciuto Rain l’anno scorso, a Marzo, nello studio di Dorothy Bhawl. Cercavo una partner con cui lavorare al massimo della libertà e con lei questo si può fare. Per me è stupendo lavorare con lei perchè non si tira mai indietro ma soprattutto perchè abbiamo raggiunto un eccellente simbiosi ed affiatamento. Abbiamo iniziato ad Aprile 2015 a provare varie azioni e ora ne abbiamo in mente molte altre. Ci sentiamo quasi ogni giorno, c’è un bello scambio di idee, consigli, immagini. Ci sono molte idee che condividiamo in modo sublime. Siamo acqua, fluida, un fiume che scorre a volte distintamente a volte nella stessa direzione. Ho venticinque anni ed è la mia prima collaborazione cosi profonda, le devo molto. Cercavo una donna coraggiosa e libera, libera di mente e l’ho trovata.

In alcune tue opere, come “Apnea sterile” e “Aritmia”, ritornano e si scontrano amore, sessualità, bende, spazi sterili. Come descriveresti l’amore oggi?

Esattamente non so come potrei definire l’amore oggi. Oggi va tutto di fretta, ci si innamora di fretta e a volte per questioni di spazi, distanze ci si lascia. Nelle mie performance vi è una forte richiesta d’amore perchè l’amore è necessario, smuove, turba, respinge, unisce, incontra. Viviamo per amare e a volte ci prendiamo cura dell’altro. Le bende non sono altro che la volontà di un legame forte attraverso un materiale per coprire e curare le ferite, le piaghe, ecc. Quindi il mio modo di interpretare l’amore è un po’ curare lo sfaldamento dei sentimenti, l’indifferenza tra i caratteri, l’apatia delle menti, degli appetiti sessuali tra corpo differenti. Credo che la società di oggi sia molto più egoica ed individualista, tende a staccarsi dal bene comune per il suo bene, dimenticandosi del fuori di sé, concentrandosi sull’ in sé. La mente ha preso il sopravvento sul corpo e con ciò l’amore è sempre più idealizzato, mancando cosi il concetto di sacrificio, perdono. Vedo molti rapporti freddi, organizzati secondo piani di vita dati da orari, impegni facendo venir meno l’incontro, il rapporto tete a tete. Siamo fili rossi, che devono sopportare distanze e tempi poiché ognuno ha una sua strada.

Quanto del tuo passato ritorna nei tuoi lavori?

Tutto. Tutto ciò che ho vissuto è fonte d’ispirazione per le idee, i video, le performance. La mia infanzia viene rigettata totalmente all’interno di ciò che faccio. Ho vissuto la metà della mia vita entrando, uscendo e restando negli ospedali quindi è normale che la narrazione sia caratterizzata prevalentemente da garze, aghi, bende, colori neutri, spazi bianchi, ambienti asettici post industriali, corpi e anatomie. Così come la rivendicazione del dolore. Molti mi dicono perchè, a volte, mi procuro e cerco dolore come se fosse una sensazione nuova ma il passato è passato… Trovo giusto questo linguaggio anche perchè non porto mai il corpo ad atrocità insopportabili, lavoro molto sul limite fisico e mentale. Tutto ha un limite ma non ne sappiamo il livello di soglia che varia da persona a persona. Anche l’uso dei fluidi, dell’acqua, del sangue, di esami, di interventi al limite del clinico\sanitario mischiati ad espressioni vitali fanno parte di quel bagaglio che porto quotidianamente all’interno del mio pensiero. Aritmia è la performance che descrive forse meglio ciò che è il mio passato, ambientata all’interno di una sala operatoria reale e funzionante, intriso di disinfettante, aghi, e corpi. Ogni artista, alla fine, parla di sé, trae costantemente qualcosa dalle vicissitudini quotidiane e se non ne avesse, le va a cercare. Dopotutto sono molto soddisfatto del linguaggio che ho deciso di seguire e Rain è predisposta ad una completa immersione all’interno del mio passato.

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Dorothy Bhawl photo

Come si veicola un messaggio sincero attraverso la teatralità dei gesti?

Innanzittuto poca teatralità. La teatralità non mi garba, punto soprattutto ad un gesto naturale e sincero in quanto la performance è vita e le mie intenzioni sono di rappresentare la vita, di vivere quel momento, in quel luogo nel medesimo istante. Piuttosto si dovrebbe discutere sui tempi, sui gesti, sull’espressione dei corpi in determinati movimenti. Il messaggio se è sincero e semplice trapela in modo naturale senza aver bisogno di particolari accortezze. Non studio particolarmente le entrate, le chiusure di una performance, mi sembra una cosa forzata, nessuno mi dice come devo finire a bere un caffè piuttosto che pulirmi il naso con un fazzoletto. I messaggi ci sono, esistono, li penso, li pensiamo poi arriva tutto il resto attraverso poche prove. Alcuni performer, addirittura, non provano ma improvvisano. L’azione passa, arriva tramite l’ispirazione, cosi, pensi a come esprimerla al meglio tramite simboli, significati, assenze e presenze, pieno e vuoto, veloce o lento. Vi sono dei collegamenti istintivi tra cose, oggetti, gesti, corpi, movimenti. Io e Rain ragioniamo molto sull’istinto, su ciò che arriva naturalmente evitando ogni tipo di forzatura.

Credi nel mondo dell’arte tutto sia già stato detto?

Effettivamente è molto dura raccontare nuove storie con nuovi linguaggi. Non c’è più nulla di nuovo probabilmente. Ormai l’arte è una giungla di artisti, nascono ogni giorno a manciate. Chi con più meriti chi con meno, chi con più riconoscimenti chi meno. Anche l’ambito performativo è stato trattato in tutte le salse.

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CRISMA – NICKeRAIN project Contexto-area contemporanea, Edolo. Brescia luglio 2015

Cosa non è stato detto?

L’arte è un linguaggio alla portata di tutti. Chi sa muoversi bene all’interno del sistema e adotta un linguaggio interessante riesce, probabilmente, a spiccare. Ogni tematica, ormai, è stata trattata in tutti i modi c’è solo l’attenzione su chi lo fa meglio e chi lo fa peggio, chi è sincero, chi no, chi è fortunato e chi no.

Arte e denaro, il connubio è possibile?

Non so. Molte volte penso di no. Parliamo di denaro ma anche di fama, forse è un fattore normale, psicologico, sociale. Come il ragionamento di chi guadagna di più non vuol dire che esso sia più bravo nel fare arte, anzi. Il guadagno è dato dal marketing, dalla moda, spesso è inversamente proporziale a linguaggi d’arte forti e costruttivi. Il denaro è relegato ad un brand, ad una fama spropositata, ad un’arte che va di moda. Leggendo le quote delle opere d’arte sulle riviste d’arte comuni si possono, solitamente trovare, valori economici di artisti ormai deceduti: spesso è cosi. Il mercato dell’arte si raggiunge anche tramite i giusti passi. Per quanto riguarda vivere facendo arte mi dicono tutti sia impossibile. Parlando con alcune mie conoscenze ho appurato che la maggior parte oltre a fare arte, insegna al liceo o in qualche università. Vivere di sola arte, magari anche grazie a workshop periodici, è sempre molto difficile anche se spererei di riuscirci ma per ora rimane un’ utopia. Ho venticinque anni, sono da tre anni che performo ricevendo anche molte soddisfazioni, staremo a vedere che succede.

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Kultur macht Frei – 2014

Puoi anticiparci qualcosa sui tuoi progetti futuri?

Si ci sono un po’ di progetti per il futuro. Nel frattempo sono impegnato nella realizzazione del mio sito internet che sarà pubblicato presto. Sto studiando parecchie azioni performative anche con Rain, mi sono iscritto a vari festival, sono in attesa dei risultati. A marzo dovrebbe uscire un nuovo video\performance ed esporrò in Francia a Dijon all’Association culturelle bourguignonne nella mostra Red Ritual curata da Francesca Lolli. Sono in fermento, spero ci siano le condizioni giuste per esprimerlo.

Grazie Nicola

Vi ringrazio.

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