In autobus verso il villaggio

Da Patriziayoga
Mi piaceva andare al villaggio. Ci muovevamo da Alwar, piccola città del Rajasthan dove viveva mio marito, Rama, usando mezzi di linea. Gli autobus erano affollati, uomini seduti persino sul tetto che ospitava chi, pur viaggiando con il sole a picco che batteva implacabile sui colorati turbanti dei contadini locali, preferiva respirare un'aria diversa da quella interna.

Per me, già salire sul bus era un'impresa: il primo gradino era così alto da terra che Rama doveva issarmi. Una volta dentro si dava da fare per farmi sedere tra i posti della fila riservata alle donne, tutte rigorosamente velate. Volentieri si stringevano per farmi spazio pur di avere la possibilità di osservare da vicino una donna che "veniva da lontano, da un altro paese".

Sempre, un tam tam di domande e risposte tra le anziane e Rama, faceva scattare l'abbinamento "italiana come Sonia Gandhi" e sembrava che questo permettesse loro di  collocarmi meglio nei loro archivi mentali.
In fondo se Rajiv Gandhi, che fu barbaramente ucciso proprio in quel periodo, aveva sposato Sonia, per quale motivo un giovane uomo rajasthano, uno dei loro, non poteva avere sposato un'altra italiana?

E così scattavano i loro gesti di approvazione, i sorrisi. Si accertavano che i suoceri indiani avessero accettato con gioia il nostro matrimonio e che pure la famiglia italiana fosse contenta di aver mandato una figlia così lontana da casa.
La mia famiglia non sapeva ancora, in quel momento, che mi fossi sposata!!! Questo ci guardavamo bene dal dirglielo, sarebbe stato troppo difficile da comprendere per loro che fanno del matrimonio e della sua celebrazione uno dei più importanti avvenimenti della vita e, di sicuro, un evento cardine nella vita di ogni famiglia  indiana.
Controllavano con attenzione che indossassi tutti i segni che contraddistinguono una donna indiana sposata da una nubile e, in tal modo, mi accettavano nella grande famiglia India dichiarando apertamente: ora sei indiana, ti auguriamo di avere presto un figlio maschio.

Era caldo quel giugno, mentre ci inerpicavamo sulla strada che tagliava la montagna: il calore immagazzinato dalle pareti di roccia granitica ci veniva restituito con generosità e contribuiva a farmi entrare in uno stato di sonnolenza che si impossessava di me per tutto il resto del tragitto.

Il bello di quei trasporti locali, almeno allora, era che si fermavano "a richiesta" di chi volesse salire o scendere in qualunque punto del tragitto per facilitare i viaggiatori sempre numerosi.
Mi piaceva seguirli con lo sguardo mentre si incamminavamo per raggiungere le loro case tra i campi dove li attendeva ombra, profumo di pane appena cotto, acqua fresca e l'immancabile chai, tè al latte abbondantemente zuccherato e aromatizzato con elaichi (cardamono).

Quando a nostra volta arrivavamo a destinazione, mentre percorrevamo il sentiero che ci portava alla casa, si poteva star certi che qualcuno della famiglia o delle case accanto, ci avesse già avvistati e un adolescente veniva spedito per aiutarci a trasportare le buste da cui traboccavano i profumati manghi che avevamo acquistato prima di lasciare Alwar.
La suocera veniva ad accogliermi al cancello aspettando con pazienza che io e mio marito ci chinassimo per sfiorarle i piedi, saluto riservato agli anziani, le sue lunghe mani nodose toccavano il nostro capo in segno di benedizione, dicendo "sono felice", e mi precedeva per accogliermi in casa dove mi aspettavano le altre donne.
Donna nel villaggio


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