Sono usciti tutti insieme, in pausa pranzo. Una decina, a esagerare non più di ottomila euro al mese netti in tutto e nessun contratto più lungimirante dell’inverno prossimo, una buona metà con accenti del centro e del sud, tra i venticinque e i trent’anni, vestiti nel modo fintamente trasandato in cui ci vestiamo tutti noi. La busta di tabacco che spunta dai pantaloni, le tasche sotto il culo, all star colorate ed eccezionalmente un paio di birkenstock, t-shirt, tagli di capelli che usavano quando facevo il liceo io, ma ora mescolati a barbe di qualche giorno e innesti giustamente contemporanei, e che diamine, sono passati trent’anni e in trent’anni qualcosa sarà rimasto. La collega più intraprendente ha buttato lì l’idea di andare tutti insieme a mangiare in quel posto carino che ha visto l’altro giorno, ma non è ancora praticissima della zona e quindi ha paura di non trovarlo. Non vuole prendersi la responsabilità di far sprecare il tempo della pausa pranzo al resto della compagnia. Ride e scuote il ciuffo bicolore, non importa se non lo troviamo, al limite se si fa tardi va bene il primo bar che incontriamo e ci infiliamo dentro. Mi sembra che sia in questa direzione. Siamo usciti dal portone insieme, anche io mangio a quell’ora, fuori c’è un po’ d’aria, mi arriva in faccia il fumo delle loro sigarette. In questa estate che non sembra nemmeno quasi più estate e dovete ancora fare le ferie, penso chissà come sarà agosto, chissà se avete prenotato, se l’agenzia in cui lavorate chiude o fate i turni, tornate a casa o siete riusciti a organizzarvi un viaggio, che tempo troverete. O no, mi direte, i soldi sono pochi, chissà poi se ci prolungano il contratto a progetto, meglio stare schisci. E se avete trovato il bar tavola calda e fredda dove la vostra guida oggi ha insistito affinché andaste, a pranzo magari avrete parlato di questo, chiedo io. O forse no, mi direte, ormai la precarietà è un dato di fatto, ci siamo cresciuti, abbiamo imparato a convivere, non ci facciamo più caso, è una parte di noi, è la quotidianità, è la notte e il concerto e la colazione e il finesettimana. La precarietà è un’amica, anzi, è una collega, viene pure a pranzo con noi, siede a tavola e ordina la sua piadina e l’acqua a temperatura ambiente e il marocchino per chiudere. Poi torniamo tutti insieme in ufficio, che la pausa pranzo sta per finire, carino il posto in cui ci hai portato, sì si spende poco e non è male la qualità. Sì, risponde la precarietà, davvero, mi fai rollare una sigaretta con il tuo tabacco?
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