Annarita Pavone permea tutte le sue attività di creatività: il lavoro, il tempo libero, la vita stessa. Il suo racconto “La terrazza di asfalto” rappresenta uno spaccato su una storia contemporanea, una di quelle storie invisibili, perché non ne abbiamo percezione.
Come hai scelto lʼidea per il racconto che è stato inserito nella raccolta?
«L’idea è nata dopo una cena consumata a casa nostra a cui aveva preso parte il miglior amico di mio marito. È nata quindi in maniera molto familiare e piacevole. Unica nota dolente della serata le riflessioni di Gianluca, lʼamico appunto, che stava attraversando un periodo di grande disillusione e rassegnazione nei confronti della sua situazione lavorativa e del suo futuro. Lʼincertezza di fronte a tutto era quindi la parola predominante: di qui la sua idea ormai rassegnata alla partenza, all’abbandono (per la seconda volta, ma forse ora definitiva) dei suoi luoghi, dei suoi cari, degli amici, dell’Italia.»
Che cosa significa per te la precarietà del lavoro e della vita?
«Quello che mi colpiva delle riflessioni malinconiche di Gianluca in quella nostra cena era il concetto di dilatazione della sua precarietà. La mancanza di una condizione lavorativa stabile che gli consentisse un margine di autonomia, lo portava a esercitare una serie di limitazioni, condizionamenti anche quotidiani (la rinuncia a un’uscita di troppo, a un viaggio…) per cui era come se tutto intorno gli suggerisse che l’unica speranza per lui era nel rifare la valigia e andare lontano. La sua precarietà era persino sentimentale, perché quando ci si sente a un bivio così, è meglio non lasciarsi andare, meglio non coinvolgersi in altre storie ed evitare di restar delusi e di deludere. Analogamente il suo lavoro di educatore lo portava a scontrarsi con l’esistenza precaria di profughi ed extracomunitari in fuga da vite ancor più precarie di quella di Gianluca.»
Cosʼè per te la scrittura?
«È un pensiero quotidiano, un gioco in cui le parole, le immagini e la fantasia si sovrappongono e talvolta mi sorprendono; la definirei un “luogo”, uno spazio mentale in cui una parte viva e autentica di me opera. Talvolta diventa un atto concreto ed è una sfida, ma resta un’attività in cui appunto riesco a sentirmi davvero a mio agio e in certi casi a compiacermi. Quando da lettrice mi accorgo di provare delle sensazioni, allora rinnovo puntualmente la mia convinzione di quanto sia geniale la scrittura: la capacità di creare, inventare dei nuovi mondi, nuovi destini o semplicemente di saper raccontare la realtà, smuovendo i sensi.»
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In bilico. Storie di animali terrestri
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