Paolo Colavero, psicologo, è l’autore di due dei racconti contenuti in “In Bilico”, “La strada di dentro” e “Vertigine da tacco a spillo”. La sua scrittura, come si può notare da quest’intervista, ha un carattere prolisso e autoironico: è il modo in cui Paolo riesce a lasciarci una risata nel cuore, il modo in cui ci fa riflettere con un sorriso e ripensare alle nostre piccole idiosincrasie.
Paolo, come hai scelto l’idea per i racconti che sono stati inseriti nella raccolta?
«Direi in qualche modo che è stato il quartiere a scegliere per me. Ho vissuto per circa quindici anni al nord, tra Urbino, Milano e Parma. Per caso o per destino, forse anche per scelta, mi sono trovato a passare alcuni dei miei migliori anni di formazione come uomo e professionista in quartieri limite. Prima in zona Caiazzo a Milano, quartiere al limitare tra la Centrale dei treni e il Corso Buenos Aires, dei treni anche quello. Quartiere di strade affollate, di locutori stranieri, di International Grocery, di birre con due B, di parcheggi gestiti da siciliani e pizzerie discutibili. Di spaccio e prostituzione, ma anche di cieli immensi dietro le reti elettrificate dei tram, di antichi palazzi rimessi a vecchio e di piccoli bar resistenti al dollaro cinese e ancora orgogliosamente italiani. Lì ho scritto “Vertigine da tacco a spillo”, piccolo pezzo che narra del mio vissuto di espatriato, di nomade appena sbarcato a Milano e di abusivo in un palazzo vigilato come una caserma dalla portiera in fondo al cortile. Per un lungo periodo sono uscito dal palazzo metà ottocento solo la sera, quando la vedetta di guardia finiva il turno alla garitta. Portavo allora con me in giro solo qualche birra scadente e la voglia di perdermi per il quartiere niente male che m’aveva scelto. Provai spesso paura, il timore dell’ombra era invece scontato, una sicurezza. Le prostitute magrebine del quartiere si truccano il viso con una polvere bianca che le fa apparire vibranti di una luce aliena, come volessero convincere il cliente dell’esperienza dell’altro mondo che lo attende. Ho sviato sguardi, declinato inviti urlati, passato birra e pestato merde nel quartiere. Ho scoperto amici cari e amiche care, ho imparato ad apprezzare il frastuono del tram n. 1 sempre di corsa in Settembrini, tra Caiazzo e Vitruvio sino a dopo la mezzanotte, ho saltato rate del parcheggio dove lasciavo la Vespa, conosciuto pittori e filosofi al banco filippino dei fiori aperto ventiquattro ore. Dopo un paio d’anni cambiai quartiere ma non fu naturalmente più la stessa cosa. Mi porto dietro una immensa nostalgia per il me a Piazzale Caiazzo, Los Angeles. Poi a Parma, qualche anno dopo, il destino (che come la sfiga ci vede benissimo) ha voluto mi trovassi a vivere con mia moglie nei borghi intorno al centro, a due minuti dalla stazione dei treni e duecento metri dalla piazza centrale. Mi sono trovato sempre e comunque al limite delle cose, come condannato al baratro, o meglio al crinale. A Parma abbiamo vissuto circa tre anni tra moldavi, sardo/brasiliani, magrebini, napoletani, africani provenienti da paesi non meglio identificati. Tutta gente molto disponibile con noi, amici che ci mancano e che ci hanno lasciato dei bei ricordi. Dimenticavo, nel quartiere c’era anche qualche parmigiano. Oltre al ristorante campano, alla tradizionale cena del martedì sera, a una hamburgeria e a un locale da ballo che nei miei pensieri di osservatore aveva il compito di riciclare danaro sporco di qualche sanguinaria cosca ligure, nella nostra strada c’era un tipico Bar dei Borghi, il Bar del ’36, così si chiama ancora oggi (ne approfitto per salutare gli amici di The Ona). Una tarda mattinata di venerdì, dopo una notte di neve, che mia moglie era al lavoro e io sprofondavo nella nebbia gelata del quartiere, mi sono deciso a passare alcune ore nel bar che osservavo spesso e volentieri dall’alto del nostro III piano, ma nel quale non avevo mai sostato oltre il tempo del caffè o della colazione. Presi quindi taccuino e penna e mi immersi nell’atmosfera da giornali del mattino, caffé espressi, dialetto parmigiano e profumi africani, cannoncini alla crema e sigarette del Bar del ’36. L’idea mi venne in quel momento. Presi in prestito, per così dire, la figlia di un amico del posto per inscenare la sua scomparsa e decisi di descrivere tutto dall’interno del Bar. Mi ero deciso alla povertà: non avrei avuto allora che gli occhi degli astanti, i loro discorsi sulla sera prima, sulle feste, sugli amici e gli ubriachi. Nelle narici avrei avuto solo i profumi della mattina, della colazione, mischiati con quelli del pranzo appena terminato. Quelli dei caffè sempre caldi. Il suono del filtro che batte, delle sedie che vengono spostate. Mi sentivo arrivato. Mi sentivo al riparo. Pensai di fermarmi tutto il pomeriggio a prendere appunti sulla giornata. Così mi misi dalla parte di quelli dentro, di quelli lontano dalla strada, di quelli che le cose accadono solo se accadono all’interno del bar, solo se viste attraverso il vetro opaco della birra o della vetrina appannata di nebbia. Dalla parte dei San Tommaso del mezzo bianchino e mezzo Campari alle nove la mattina. Le abitudini non costano, non si pagano poi un granché. Costa solo la sorpresa: costa la sorpresa. Mi sono messo dalla parte di coloro che vedono la vita da dentro qualcosa, sia anche da dentro se stessi. In qualche modo ho continuato a fare il mio lavoro anche quella mattina, ovvero mettermi nei panni degli altri, comprendere la personale norma che regola le loro vite. Il fatto è che sono celiniano dentro e quindi sono portato, destinato, affascinato dalla vita vista dal basso. I piani alti non mi sfidano, mi sfidano i marciapiedi. Non sono per la rotta, sono per lascia. Ai tacchi preferisco le ballerine. A lungo andare questo può rappresentare un problema.»
Che cosa significa per te la precarietà della strada?
«Per me la precarietà della strada ha il senso dello stare in mezzo, tra le cose. C’è chi ci nasce in mezzo alle cose, chi ci si ritrova per la strada, chi deve sospendere le proprie abitudini anche solo per avvicinare le cose altre. In questo senso, credo che la precarietà delle cose, nel mio caso della strada ma anche delle abitudini, del senso comune, sia una posizione non mantenibile a lungo. Chi la conosce da sempre ha solo più esperienza, non è detto non soffra magari al proprio interno. Chi ci arriva per caso o chi vi giunge dopo un lungo esercizio non riesce di solito a tenere la posizione per più di un momento. La questione si fa allora questione di un momento. In questo senso mi sento sempre molto vicino ad Azorin e Mirò di Cancogni. Chi resta precario tra le cose quotidiane, a mio parere, è costretto a cambiare mondo, in parole semplici è costretto a delirare. I tanti sfortunati che affollano le strade delle grandi città e le stazioni in particolare, sono tutti in qualche modo dei deliranti per necessità. Vivono da altre parti, vivono tra nemici o ricercati da qualcuno. Vivono che non hanno scelta che essere per terra o in cima al mondo. In definitiva credo di aver sempre scritto di cose reali, di esperienze a me realmente accadute in treno, per la strada, in un bar o in una stazione, proprio per provare a distinguere momento per momento la mia vita dal mio delirio, per provarmi comunque alla tentazione del delirio, del va bene (anche) così. Più precisamente, credo l’esperienza del bivio, del crinale o dell’esistenza in bilico siano fondamentali per non farci bastare mai la vita che abbiamo o hanno pensato per noi fosse quella giusta. Se proprio non ce la facciamo, abbiamo comunque il sempre ospitale autre monde ad attenderci.»
Cos’è per te la scrittura?
«La scrittura è Monday che mi chiede una moneta all’uscita dal supermercato della mia cittadina o Thomas, il pugile senza fissa dimora fuori dal mercato di via Gustavo Modena a Milano che mi racconta dei suoi allenamenti, per i quali investe tutte le monete che riesce a raccogliere aiutando le signore con la spesa. I suoi incontri con la vita. La scrittura è la puzza di piscio al passaggio dei barboni nei tram, dei folli orgogliosi dei loro deliri (come non potrebbero esserlo), dei bambini che osservano sperando di non essere giudicati. La scrittura è Marco del Frida che mi spiega che la birra non va tenuta mai e poi mai tra le gambe, non è da signori. La scrittura è l’emigrante ipomaniaco di ritorno dalla Svizzera italiana, è la chiesa del quartiere di Saint Roch a Quebec, assediata dagli elementi della Halloween Parade di rue Saint Joseph Est, mentre quella che sarà tua moglie torna verso casa con una sei di Boreale bionda. La scrittura è il terrore al timone di una barca a vela di notte, nel golfo di Genova, tra traghetti e petroliere. La scrittura è l’appunto ritrovato anni dopo, oramai scaduto, nella tasca dei pantaloni. La scrittura è non perdersi nulla, non dare niente per scontato, non cedere alle abitudini. Non smettere di spalancare gli occhi, ma con la voglia di scriverne. La scrittura è la mano veloce del giovane ladruncolo che mi porta via ogni giorno e a ogni passo il portamonete dalla tasca, lasciandomi così senza certezze, carta di identità e ricordi. La scrittura è testimoniare di aver vissuto, di aver visto. Di essere passato ma non perduto.»
Paolo Colavero. Salentino, classe 1980. Psicologo specializzato in Psicoanalisi e Psicopatologia Fenomenologica, dopo quasi quindici anni vissuti pericolosamente tra l’Italia e soprattutto la Francia, è tornato a Maglie nel 2013 per aprire uno studio clinico in una strada malfamata. Oltre a un buon numero di pubblicazioni scientifiche, ha scritto numerosi piccoli racconti di motivo metropolitano e notturno, organizzato e partecipato inoltre a vari reading tra Milano, Berlino e il Salento. Le sue storie hanno carattere rebetiko-portuale, letterario e metropolitano. Possiede una prima edizione italiana del “Viaggio al termine della notte” di Céline (1932). Per il blog ultreyapoetry.com è responsabile della sezione Zona Franca.
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