In blue

Da Naimablu

Chiaro di luna, Munch


La musica offriva riparo a una notte che non voleva ritrovare il suo blue.
In questa lettera non scriverò quello che vorrei dirti. Non ci riuscirò, neppure stavolta. Mi conosco e so che tra un po’ parlerò di quanto siano capricciose le nuvole stasera, di tutto quello che si può vedere attraverso i graffi del vapore su una finestra e di quanto sia bello ricamare un sogno in un cielo stellato. No, non parlerò di te, non ci riuscirò, come sempre. Così, farò finta di voler ricordare quella sera d’estate in cui i grilli hanno deciso come avremmo dovuto battere i piedi su quel viale di campagna. Volevamo ballare un tip tap. Per ballare il tip tap bisogna far rumore. Tip tap tip tap tip. E il rumore? Non c’era, insieme, noi, eravamo suono. Tip tap tip tap tip. Battevano i piedi, mentre i grilli facevano rumore. Quello che non riuscivamo a fare noi, quello che mancava alle nostre scarpe incipriate dalla polvere del viale. Polvere. Come quella che respiro tutte le volte che penso a quell’istante. Non respiro. Lo vedi? Non ci riesco. Così, ti dirò che vorrei ancora poter contare su quel filo rosso che pensavo non si sarebbe mai spezzato. Ricordi quella leggenda lontana? Si racconta che per ognuno di noi ci sia un filo rosso che ci riconduca all’altro. Ovunque sia. Ovunque. E tu mi hai trovata. Mi ero nascosta bene, nessuno doveva sapere dove fossi, nessuno. A te, però, non la si fa. Ci ho provato, ho sparso un po’ di pepe qua e là, ma tu non hai neppure starnutito, non ti sei distratto e mi hai trovata. No, non riesco a parlare di te, non ancora. Così continuerò raccontando di quando quella notte ha vestito i pensieri di blu. Cullava un istante, forse un mai più. Quella notte era diversa, noi eravamo diversi. Stretti in un abbraccio che non aveva bisogno di promesse, l’uno al riparo nel respiro dell’altra. Nascondevi segreti tra i miei capelli, in silenzio. Gli occhi bastavano a sussurrare quello che il cuore voleva gridare, ma che la voce accarezzava con discrezione. I tuoi occhi nei miei, come se non avessero avuto altra casa. I miei nei tuoi, e nessuna intenzione d’andar via. Un po’ come quelle pantofole che non vuoi buttare. Sono lacere, piene d’ammacchi e segni, nonostante tutto, senti che tengano ancora caldo. Senti. Ché certe cose si sentono più che il freddo d’inverno o l’acuto di un bambino in cerca di attenzione. Vedi? Parlo di te, un po’. Forse ci sto riuscendo, anche se non dico di quell’istante, di quel mai più. Forse, raccontarlo, potrebbe sollevarmi. Forse te lo dovrei. Ma come? Come faccio a spiegare il dolore di uno strappo impossibile da ricucire? La mia anima, da quel momento, è mutilata. In quell’istante in cui hai deciso che la vita fosse troppa per doverla lasciare andare. Così, sei andato via tu. Silenziosamente, abbandonandoti alle acque dello stesso lago che ha cullato la nostra ultima notte tinta di blu. Mi hai affidata alle braccia di Morfeo e, quando hai capito fossero abbastanza forti da trattenermi, mi hai baciata. Non l’ho sentito, ma so che lo hai fatto. Ed è arrivato. Quell’istante in cui ti sei lasciato scivolare con tutto il peso della tua malattia, in quel lago increspato di latte dalla luna.
“Ho legato il mio tempo al tuo. Lo slego adesso, per poterlo portare con me. Prima che sia troppo tardi per trattenerlo. Per non permettere al mio male di farlo suo, portandomi via da te, senza che possa riconoscerti. Il nostro tempo, adesso, è salvo. Nessuno potrà sottrarcelo, mai."
 L'ho detto, senza respirare. Siamo ancora una volta insieme, per non lasciarci. Mai più.

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