

Pasolini | Alla memoria
di Massimiliano Sardina

Pier Paolo Pasolini è stato assassinato su una spiaggia dell'Idroscalo di Ostia la notte tra l'1 e il 2 novembre 1975. Sono trascorsi quarant'anni, ed è necessariamente dalla sua morte, violenta, improvvisa, crudele che ogni volta bisogna ripartire per tentare di riannodare le righe spezzate della sua opera, un'opera tanto compiuta quanto incompiuta, incisa come una stigmata sulla carne corrotta del nostro Paese. Nel desolante sterminato vuoto istituzionale che circonda e accerchia i grandi padri della nostra letteratura, l'indifferenza subdola verso Pasolini è tanto più imperdonabile perché sconfina silenziosamente nell'oblio, nell'amnesia affettiva, nell'omertà intellettuale. Di fronte a tanta malcelata violenza, così ben incipriata da tolleranza, ecco che anche la celebrazione convenzionale di un anniversario, con le sue cifre tonde tonde, finisce per acquisire una notevole importanza, non foss'altro che per scongiurare la paralisi assoluta. Né monumenti, né piazze, né scuole, forse giusto un paio di strade messe in croce e sperdute nella grande periferia italiana, un circolo, un'associazione, una biblioteca di quartiere, davvero troppo poco per contenerne la grandezza e per tramandarne lo splendore. Quel corpo esanime, barbaramente massacrato da note mani ignote, è ancora lì, riverso sulla sabbia inzuppata di sangue, lì, con le ossa rotte e i segni degli pneumatici impressi sulla pelle, lì, come un Cristo tirato giù dalla croce per essere ucciso un'altra volta, e crocifisso alla terra. Le spoglie mortali, restituite alle prime luci dell'alba come un cumulo informe di monnezza, sono il solo trofeo rimasto in mano alle destre fasciste. Il corpus sempiterno dell'opera, immune all'oltraggio, irride i carnefici e scavalca il tempo.
Da Casarsa della Delizia, luogo dell'infanzia e della tenerezza, al non luogo di Salò: tra questi due estremi (di accorata ricerca linguistica e di coraggiosa tensione espressiva) si dispiega la grande stagione creativa pasoliniana, une saison en enfer sempre in febbrile oscillazione tra slanci di perdizione e cadute di redenzione. Centrale, nell'opera, la ferita mai sanata della vita, una pagana transverberazione stillante sangue e sperma, una vagina di madre grondante placenta: un tempio ma al contempo una gabbia, un letto e una tomba. Pasolini insegue la vita, la bracca, mosso da un'inguaribile nostalgia il poeta avverte e subisce quel "sentimento della perdita" che abita le cose, quella finitudine che accarezza certe violente giovinezze, la fragilità di un passato arcadico-arcaico sempre più fagocitato dalla macchina moderna dell'omologazione. A vent'anni, nel 1942, quando esordisce con la sua prima raccolta di versi Poesie a Casarsa, Pier Paolo era già consapevole del cambiamento in atto; la scelta del dialetto friulano (la grezza purezza della parlata contadina tramandata oralmente nel corso dei secoli) risponde a una necessità di recupero: il casarsese come "lingua per poesia" è al contempo una riappropriazione e una riformulazione che inaugura, eludendo le eco vernacolari, la poesia dialettale moderna. In questi appassionati anni di formazione Pier Paolo sfonda il recinto della cultura provinciale farcita di bieco fascismo e si lancia a capofitto nella linguistica, nella letteratura, nella filologia, senza trascurare la storia dell'arte; forse non molti sanno che Pasolini doveva laurearsi in storia dell'arte con Roberto Longhi (con un tesi sulla pittura italiana novecentesca), ma la chiamata alle armi del settembre '43 finì per cambiare i suoi piani. La laurea arriverà nel '45, ma con una tesi su Pascoli.

Gli anni della guerra agiscono prepotentemente sulla sua vicenda umana e poetica, tra miseria, paura e inquietudine. È in questo scenario di desolazione e povertà che si salda, d'un amore esclusivo e morboso, il sodalizio con la madre Susanna. Il dolore, puro e pieno, li vedrà stringersi e singhiozzare alla notizia della morte di Guido (il secondogenito) nel febbraio del '45, vittima della guerra, colpito da "fraterna mano nemica." Pier Paolo porterà questo dolore con sé tutta la vita. La figura del padre resta relegata nell'ombra, offuscata dalla luce del rapporto simbiotico tra madre e figlio (e così sarà anche negli anni del dopoguerra). Alla lunga e difficile stagione bellica - vissuta tra i paesini di Casarsa, Versuta e Valvasone, con fugaci rientri nella natia Bologna - vanno ascritte anche le prime esperienze erotiche di Pier Paolo: amori selvatici, bucolici, legati al profumo dell'erba, vissuti in osmosi con le atmosfere arcadiche friulane, amori primordiali (ve ne è traccia nei Diari e in Amado mio, in riferimento a un ragazzo di Versuta), molto diversi dagli amori guappi e pericolosi che scandiranno di lì a poco gli anni romani. In questa cornice agreste l'omosessualità non è ancora scandalo o devianza ma rientra nel naturale ordine delle cose, figlia d'una giovinezza atavica e mitica, non contaminata dal senso di colpa catto-romantico e né tantomeno dalla omo-omologazione promossa dalle destre fasciste (nonché da certo comunismo mancato). Questi amori appassionati e innocenti parlano la lingua vergine della sua poesia, un alfabeto arcano rapito dalla tradizione orale e incoronato d'inchiostro. Il poeta non tarderà a somatizzarli e a prendere piena coscienza del proprio orientamento (confiderà per la prima volta il suo segreto a Silvana Mauri, uno dei suoi più felici legami d'amicizia intellettuale). Le ricerche in seno alla lingua prendono forma (nel febbraio '45) nella fondazione dell' Academiuta di lenga furlana e nella pubblicazione della rivista Stroligùt di ca' da l'aga (fino all'aprile del '47).
Accanto alla poesia Pier Paolo si esercita anche con la pittura, eseguendo studi e dipinti en plein air nelle campagne casarsesi (le immagini che si sforza di catturare sono l'esatto equivalente dei suoni e dei fonemi predati dalla sua incursione poetica). La versatilità del medium, come in Cocteau, è sempre stata una prerogativa della ricerca iconico-linguistica pasoliniana. Sempre nel '47, Pasolini comincia a lavorare come insegnante in una scuola media di Valvasone (nei pressi di Casarsa), esperienza che ispira e affina la sua vocazione pedagogica. Gli anni che precedono il definitivo trasferimento a Roma lo vedono sempre più coinvolto nel partito comunista, forte dei profondi studi del pensiero marxista; si adopera come militante, si getta nel cuore vivo della lotta, ma ben presto si ritrova solo, incompreso, frainteso (una condizione che si farà cronica e culminerà con l'espulsione dal partito nell'autunno del '49). All'espulsione dal PC di Udine contribuì certo anche la denuncia per atti osceni e corruzione minorile che colpì Pasolini nell'ottobre '49 (questa l'accusa: il poeta si sarebbe appartato con alcuni ragazzi nel corso di una sagra paesana). Lo scandalo costrinse la famiglia alla fuga nel gennaio del '50.

Pasolini nei primissimi anni Cinquanta fa in tempo a respirare quegli ultimi profumi di Roma perduta, una scia sempre più debole destinata, lui teme, a svanire definitivamente nel puzzo sintetico della grande omologazione. A quei profumi appartengono anche i dialetti, che come robuste corde tengono stretti gli uomini del passato a quelli del presente; il poeta, che tanto si era speso per la lingua dei padri ai tempi dell' Academiuta, sente ora franare i dialetti superstiti nella nascente lingua industriale, piatta e livellata, impoverita, contaminata dalle televisioni e dagli americanismi. I dialetti hanno resistito, pur perdendo certi colori, ma le paure di Pasolini erano più che fondate. Come l'ambientalista si frappone tra ruspa e foresta, così il poeta fa di se stesso uno spartiacque tra passato e futuro: il passato vagheggiato del mondo contadino e il futuro, sempre più temuto, dell'alienazione; il poeta scava nella terra a mani nude con l'entusiasmo di un bambino che disseppelisce un tesoro, ma presto inorridisce nel constatare che le sue mani si sono imbrattate di petrolio: l'ignara umanità si sta contaminando, sta macchiando la sua purezza con il grasso dell'industria capitalistica, ma forse la poesia, il grido disperato del poeta, può ancora far qualcosa. Il pedagogo, l'educatore, l'ammonitore, il difensore degli umili, il tenero dolciastro comunista: il poeta. Roma, la diurna e più ancora la notturna, gli offre lo spettacolo della realtà, la rappresentazione di un'umanità in divenire tra gli ultimi colpi di tosse del dopoguerra e i primi sintomi del boom. Tutto converge nell'opera di narrativa Ragazzi di vita (1955), nella raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci (1957) e nel secondo romanzo di ambientazione romana Una vita violenta (1959).
Con Ragazzi di vita Pier Paolo Pasolini si impone prepotentemente sulla scena letteraria internazionale, ma il consenso non è unanime; la critica marxista lo travisa, così come non lo comprendono i soliti detrattori (stessa sorte toccherà a tutte le opere future, tant'è che Pasolini ci farà presto il callo). Scrive Nico Naldini in Breve storia di Pasolini: "La presentazione di un libro o di un film, un dibattito su qualsiasi argomento, lo costringono a rispondere a ingiuste e fanatiche accuse. Pasolini non perde le staffe, risponde paziente smontando ogni accusa, cogliendo le contraddizioni e i pregiudizi dei suoi accusatori." Contemporaneamente all'impegno poetico e letterario Pasolini, non foss'altro che per monetizzare, comincia a lavorare dietro le quinte del mondo del cinema come sceneggiatore. La missione poetica, volta a "vincere il residuo mito novecentesco e ricostituire una nozione di poesia come prodotto storico e culturale" culmina nella fondazione, con Roberto Roversi e Franco Leonetti, della rivista Officina (di vita breve, ma intensa).


Nel 1968, anno cruciale per la società italiana, Pasolini scrive Teorema e ne realizza anche il film. La chiave del teorema sta in una visitazione angelico-demonica, insieme redentrice e corruttrice, che entra nel fragile ordine prestabilito e lo sovverte.

La raccolta di poesie Trasumanar e organizzar esce nel 1970. Entriamo nell'ultimo intensissimo quinquennio della vita del poeta, il più inquieto ma al contempo anche il più presago e pacificato. Con profetica lungimiranza Pasolini fiuta il lezzo della mercificazione insinuatasi anche nel pensiero intellettuale dei suoi colleghi contemporanei. Letteratura, poesia e cinema non son impermeabili al diktat dell'industria capitalistica; solo il teatro d'elite si salva, proprio perché non rivolto alle masse. "... il teatro non verrà mai a coincidere con ciò che si chiama massa [...] Questo vale anche per la poesia. La poesia che sto scrivendo adesso è una poesia sgradevole, spiacevole, una poesia il meno possibile consumabile, anche nel senso esteriore del termine. [...] E così il cinema: farò del cinema sempre più difficile, più aspro, più complicato, e anche più provocatorio magari, per renderlo il meno consumabile possibile." Nel '71 esce il film Il Decameron, primo capitolo della Trilogia della vita. Nel '72 è la volta del saggio Empirismo eretico (una raccolta di interventi e riflessioni), e comincia la collaborazione con il Corriere della Sera (gli articoli confluiranno, nel 1975, nel celebre Scritti corsari; altri interventi e articoli polemici andranno a comporre il postumo Lettere luterane, 1976). Parallelamente agli impegni cinematografici, critici e giornalistici Pasolini lavora al grande romanzo, uscito postumo e incompiuto, Petrolio. La Trilogia della vita prosegue nel '72 con I racconti di Canterbury e nel '74 con Il fiore delle mille e una notte. Nella Trilogia si celebra il trionfo del corpo, la sua felicità e il suo mistero.

La Trilogia della vita celebra una ritrovata fisicità; in certi fotogrammi baciati dalla luce sembrano riecheggiare i versi di Carne e cielo, L'illecito, L'angelo impuro, e più ancora quelli de Il Narciso e la rosa: "... Vieni, caro Demonio, e contempliamo insieme l'assenza di Narciso nell'argento del sogno. Non imperversa il riso nella tua bocca odiosa? Ebbene, amico, cogli nell'orto una rosa. Moralità o poesia o bellezza, non so, protendo questa rosa a rispecchiarsi sola." Su tanta disperata gioia calerà il drappo funebre di Salò, una trasposizione tutta pasoliniana de Le 120 giornate di Sodoma del Divin Marchese. Salò è l'ultimo valzer, il "mo' sto bene" sospirato in punto di morte da Accattone. Nell'ultima intervista (rilasciata il giorno prima della morte a Furio Colombo) Pasolini afferma: "... La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l'una contro l'altra." Con il testo La divina mimesis e con il film Salò, entrambi del '75, Pasolini chiude i conti con la sua opera, lasciando sospesi e incompiuti numerosi progetti in cantiere, come Porno-teo-kolossal e il già citato Petrolio. La morte gli strappa i fogli di mano, rovescia l'inchiostro, blocca i tasti della Olivetti e appanna tutti gli obiettivi del suo cinema. Già nel '71 con la lirica Versi del testamento (contenuta in Trasumanar e organizzar) il poeta dichiarava la sua stanchezza, quasi una certa noia del vivere. La maledizione del sesso, tarlo di notti insonni e pericolose, negli ultimi anni si riduce a una vuota pratica ritualistica, a una reiterazione. "Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri - e anche d'inverno, per le strade abbandonate al vento, tra le distese d'immondizia, contro i palazzi lontani, essi sono molti - non sono che momenti della solitudine; più caldo e vivo è il corpo gentile che unge di seme e se ne va, più freddo e mortale è intorno il diletto deserto."

Massimiliano Sardina
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