Tornare in Italia da turista per qualche giorno è volersi bene, ma farsi male.
Far “respirare” ai propri figli ancora bambini la cultura millenaria delle nostre città d’arte è un dovere per chi come me li ha fatti nascere in un’altra nazione, un diritto per loro che si sentono italiani, ma considerano l’Italia il paese delle vacanze, dei viaggi a casa dei nonni, della pasta e della pizza migliori che abbiano mai mangiato.
Hanno visto spesso Milano, la città natale dei loro genitori, ma anche Roma, Venezia, Mantova, Napoli e in questi giorni Pisa e Firenze. Hanno adorato la torre che pende, i panorami fantastici che si ammirano dal campanile di Giotto o dalla cupola del Brunelleschi, hanno voluto sapere chi erano Michelangelo e Donatello, hanno visitato la casa di Dante e sono rimasti affascinati dai gironi infernali disegnati su una parete.
Hanno divorato quantità industriali di bruschette, spaghetti e tiramisù (mentre io mi deliziavo con caffè e cappuccini degni di questo nome), hanno parlato per quattro giorni, 24 ore al giorno, la loro lingua materna e riso per la C aspirata dei fiorentini, hanno scattato decine di foto da mostrare al ritorno ai compagni di scuola, hanno soddisfatto mille curiosità, ma sono rimasti loro diversi dubbi. Quelli che io non ho saputo spiegare. Perché non li so spiegare nemmeno a me stessa. Quelli sul perché le cose in Italia spesso vadano in modo poco sensato o addirittura assurdo.
“Perché mamma abbiano prenotato i biglietti di prima classe sul treno, se la prima classe non esiste?”. Già, perché? Il fatto: la sera prima di partire per Pisa ho prenotato sul sito delle Ferrovie il treno regionale che da Firenze in un’ora ci avrebbe condotti alla città della torre. Visto che non viaggio mai in treno e che la differenza di prezzo rispetto alla seconda classe non era proibitiva (18 euro in più in totale) ho deciso di far viaggiare più comodi i bambini. Ma quando il treno è arrivato in stazione, il vagone di prima classe non c’era. Ho chiesto spiegazioni e, serafico, il capotreno mi ha risposto: “No, non c’è la prima, è tutto uguale anche se fanno pagare due classi”. Ciliegina sulla torta, appena mi sono seduta, il sedile è sprofondato sotto di me, tra le fragorose risate dei miei figli. Vizi italici a cui, evidentemente, non sono più abituata. Scriverò una mail lamentandomi, perderò un tempo che vale più di quei 18 euro e finirò per lasciar perdere. Succede sempre così. Su questo contano i promotori dell’inefficienza.
Ma c’è di peggio. Ansiosa di far visitare gli Uffizi ai bambini, per evitare loro lunghe attese ho prenotato i biglietti di ingresso online con molto anticipo. La mail di conferma dice che dobbiamo presentarci all’ingresso alle undici e trenta del mattino. Per non sbagliare arriviamo in anticipo e chiediamo al personale qual è la porta riservata a chi ha prenotato. Invece di indicarci l’ingresso, il funzionario ci spedisce a una biglietteria dove restiamo quindici minuti in fila prima di poter ritirare i ticket. Una volta in possesso dei documenti ci viene detto di metterci in coda davanti a un’altra porta dove una lunghissima colonna di gente attende nervosa e impaziente. Soltanto mezz’ora più tardi riusciamo a varcare la soglia del museo. In totale 45 minuti di fila in piedi. Praticamente lo stesso tempo di chi non ha acquistato i biglietti in anticipo ma con un sovrapprezzo per la prenotazione. Oltre al danno la beffa.
Di storie come queste ogni turista che abbia viaggiato in Italia potrebbe raccontarne a decine. Spine nel fianco per chi ama il nostro Paese.
I motivi per cui l’Italia resta nel cuore di chi la visita sono innumerevoli, il patrimonio artistico, culturale e naturale della nostra terra è superiore a quello di qualsiasi altro paese (vantiamo 47 siti Unesco ma potrebbero essere molti di più se investissimo nella conservazione del territorio e dei suoi tesori), ma proprio quando il mondo si è fatto più piccolo e la gente viaggia frequentemente, noi perdiamo l’occasione di guidare la classifica dei paesi più visitati del pianeta (dal 2010 siamo solo quinti dopo Francia, Spagna, Usa e Cina). Ciò nonostante, l’Italia continua a piacere. Secondo la XVIII edizione del Rapporto sul turismo italiano (2011-2012) realizzato da Mercury e Irat (Istituto di ricerche sulle attività terziarie del Consiglio Nazionale delle Ricerche) a cura di Emilio Becheri e Giulio Maggiore, in libreria da fine maggio per Franco Angeli, il 2011 è stato un anno d’oro per il settore:
Sorprendentemente, rispetto alle previsioni e alle analisi generalizzate, l’anno 2011 è l’anno record del turismo italiano con 386,895 milioni di presenze (pernottamenti) di turisti, dei quali circa il 46% stranieri. (…) Se tale valutazione è il primo commento da fare, tuttavia è da ricordare che i segni della crisi si sono fatti sentire nel comparto durante il 2012 con forti diminuzioni.
Secondo la mia esperienza di italiana in costante contatto con una comunità internazionale e poliglotta, l’immagine che i turisti stranieri hanno dell’Italia è quella di uno splendido ma disorganizzato paese, visitabile fino a Roma e non oltre (En Napoles no se puede ir en coche, es muy peligroso - “A Napoli non si può andare in auto, è molto pericoloso” – mi dicono i pochi spagnoli che ci sono stati), in cui guidare, prendere treni e ammalarsi è altamente sconsigliato.
“L’esperienza in un pronto soccorso romano è stata una delle peggiori della mia vita” mi ha confidato una cara amica svizzera tempo fa. Non ho faticato a crederci perché io ne ho avuta una analoga e terribile su una barella di un ospedale milanese. Ma senza arrivare a estremi che non riguardano più soltanto l’aspetto turistico, viene naturale chiedersi come possono gli italiani, circondati da tanta bellezza, rassegnarsi all’inefficienza, agli sprechi, al pressapochismo e alle furberie che fanno scappare i turisti?
Il Rapporto sul turismo Italiano conclude sostenendo che:
È un’utopia pensare di riconquistare il primo posto come destinazione turistica in termini di valori assoluti, mentre può essere un obiettivo raggiungibile se lo si pondera in termini relativi, come ruolo del comparto nell’economia di un grande Paese. (…) La speranza è che dal Piano Strategico scaturisca un grande dibattito che esalti e faccia comprendere alla politica il ruolo del turismo, la più grande attività produttiva del paese.
Ora un nuovo governo, un nuovo ministro, hanno in mano l’ennesima carta da giocare per cambiare le cose. Perché tutto può sempre cambiare quando le risorse sono disponibili. E ogni angolo d’Italia è una risorsa di enorme valore da sempre sottovalutata. Se fossimo americani saremmo un o sconfinato parco giochi dell’arte e questo credo nessuno lo auspichi, ma tra la Disneyland della cultura e l’attuale far west dell’ognuno si arrangi come può, ci sono livelli intermedi che potrebbero ridare respiro all’agonizzante economia nazionale. Attribuendo valore alle attività legate al turismo si possono creare nuovi posti di lavoro, esigenza oggi prioritaria per dare un futuro ai tanti giovani che stanno abbandonando l’Italia per cercarne uno all’estero.
Cambiare l’immagine di un paese agli occhi del mondo non è impresa semplice, ma vale la pena provarci. Lo sa bene la Spagna, che oggi vive una crisi peggiore di quella che ha aggredito l’Italia, ma che cerca di difendere con le unghie le posizioni conquistate nel turismo. La sua gastronomia viene osannata come la più innovativa del mondo, Barcellona, pur priva della bellezza delle nostre città d’arte, si è trasformata in una delle mete più richieste dai turisti (anche congressuali) e le sue isole, in estate, attraggono orde di vacanzieri in cerca di mare cristallino, natura, ma anche vita notturna. Di tutto questo, al nostro Paese non manca nulla. Forse, solo la voglia di fare le cose per bene. Insomma, sarebbe ora che l’Italia gettasse i panni di cenerentola e indossasse quelli della principessa, la bellezza non le manca.
Chissà se mi riuscirà di fare un viaggio in cui i miei figli non debbano più chiedermi “perché in Italia funziona tutto male?”.
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