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In libreria: il berlusconismo

Creato il 06 giugno 2013 da Bernardrieux @pierrebarilli1
Chi spiega il berlusconismo solo come miscela di “potenti mezzi” e “popolo bue” ne dimentica la “sostanza politica”
IN LIBRERIA: IL BERLUSCONISMODescrivere un fenomeno complesso utilizzando una formula semplice è sempre un’operazione rischiosa. A questo punto però posso azzardarmi a dare una definizione dell’ideologia berlusconiana: si è trattato a mio avviso di un’emulsione di populismo e liberalismo (o, per lo meno, di un certo tipo di liberalismo). Questa formula sommaria deve poi essere completata con l’aggiunta di tre elementi ulteriori: le due componenti di questa emulsione hanno avuto lo stesso peso – è per questo che sarebbe improprio parlare di populismo liberale o liberalismo populista, perché entrambe le formule sbilancerebbero il fenomeno su un lato o sull’altro –; esse possono essere distinte sul piano logico, ma sul concreto terreno storico sono inseparabili; hanno potuto marciare unite e non divergere, infine, soltanto grazie a una premessa ulteriore tanto robusta quanto problematica della quale diremo più avanti. Il berlusconismo può essere rappresentato come un polpo a tre tentacoli. La testa del nostro cefalopode è rappresentata dal mito della buona società civile. E i tentacoli che derivano da quella testa sono l’ipopolitica, lo “stato amico” – che, si ricordi, è anche stato minimo – e l’identificazione della nuova élite virtuosa. Di questi quattro elementi i primi due presentano un grado elevato di commistione fra populismo e liberalismo, il terzo è più spiccatamente liberale, il quarto più spiccatamente populista.
La “santificazione” del popolo, considerato depositario di tutte le virtù, e l’attacco corrispettivo alle élite che lo avrebbero invece tradito sono tipici temi populisti. Nel nostro caso tuttavia il populismo si presenta emulsionato col liberalismo a motivo della concezione particolare che il Cavaliere ha del popolo: non un’entità omogenea, priva di fratture interne, cementata da elementi comuni – culturali, storici, etnici – tali da tagliare seccamente fuori chiunque non li condivida, ma al contrario una somma di individui diversificata, pluralistica, cangiante, permeabile e aperta verso l’esterno. L’apologia berlusconiana dell’italianità può essere ricondotta pure a una forma, se non di nazionalismo, per lo meno di patriottismo. Di nuovo, però, si tratta di un orgoglio nazionale per tanti versi paradossale: l’enfasi su un’identità collettiva che si fonda certo su una storia e una tradizione comuni – storia e tradizione, per altro, ricche di riferimenti ai valori del cattolicesimo –, ma ancora di più sulla condivisione di una mentalità individualistica, scettica e ipopolitica. Una convergenza data dalla propensione a divergere, insomma – l’esercito di quelli che non intendono militare. Vari analisti, insistendo soprattutto sull’importanza non soltanto materiale ma anche simbolica che Mediaset e il Berlusconi imprenditore televisivo hanno avuto nella vicenda del Berlusconi politico, hanno sostenuto la tesi secondo cui il popolo berlusconiano sarebbe fatto soprattutto di consumatori. Questa tesi a mio avviso, anche se tutt’altro che infondata – è evidente che il sogno, o l’illusione, del benessere materiale ha rappresentato una parte integrante e fondamentale del berlusconismo –, è però unilaterale. In primo luogo perché oltre che ai consumatori il Cavaliere si è rivolto senz’altro pure ai produttori. A giudicare dai suoi discorsi, anzi, si è rivolto a questi molto più che a quelli – non per caso fra i produttori ha fatto il pieno di voti. E poi perché nell’immaginarla solidale, socievole e cooperativa ha dato dell’Italia un’interpretazione molto più che meramente economica. Il punto nodale dell’idea che Berlusconi ha avuto del paese non va cercato dunque, o per lo meno non va cercato soltanto, nel messaggio consumistico della televisione commerciale. Quanto piuttosto nel fatto che quell’idea, ambigua e instabile, è rimasta “sospesa” fra le nozioni di popolo e di società civile. Da un lato insomma l’Italia del Cavaliere si è proposta come una società civile compiutamente articolata, moderna e multiforme, composta di individui autonomi, maturi e socievoli, ipopolitica ma non antipolitica. Ossia disposta ad ammettere senz’altro la politica come espressione del dissenso e delle divergenze d’interesse che scaturiscono naturalmente dalla libertà, pure se ostile a una politica eccessiva, troppo ideologica e polarizzante, tale da introdurre divisioni “artificiali” e non negoziabili. Dall’altro lato quell’Italia si è presentata invece come un popolo che, per quanto non concepito in termini etnici o nazionali, è stato però reso unitario, omogeneo e semplice dalla sua bontà, dall’adesione universale a determinati valori umani fondamentali. Ed è stato quindi antipolitico – tendente a rifiutare non soltanto l’eccesso di politica, ma la politica tout court, poiché in ogni sua forma essa rappresenta comunque un elemento di divisione. (…) Emulsione di liberalismo e populismo, dunque, il berlusconismo. Ma, si diceva, liberalismo di un certo tipo. Più precisamente: un liberalismo di estrema destra. La destra e la sinistra liberali vengono in genere distinte sul terreno economico – la destra più favorevole alla libertà di mercato, la sinistra all’intervento dello stato. A mio avviso è un modo imperfetto di porre la questione: destra e sinistra liberali si distinguono senz’altro sul terreno economico, ma questa differenza consegue in realtà da un dissenso più profondo su come debba essere impostato il rapporto fra lo stato, la politica e la società civile. Il liberalismo nel suo complesso confida nella capacità di una società civile fondata sulla libertà individuale di dotarsi in maniera largamente spontanea di un assetto ordinato e progressivo. Ritiene però anche che questa capacità possa svilupparsi soltanto nel momento in cui si sia raggiunto un certo livello di civiltà, come abbiamo già visto citando Mill; che il contesto istituzionale entro cui gli individui interagiscono sia fondamentale; che lo stato e la politica possano avere un ruolo importante, seppure sempre ancillare, nel facilitare, accelerare e correggere il lavoro di auto-organizzazione che la società svolge. All’interno di questo quadro comune i liberali si collocano lungo l’asse destra/sinistra a seconda del loro grado di fiducia nelle virtù della società civile e di pazienza nell’aspettare che essa risolva da sé i propri problemi. La destra liberale ha fiducia e pazienza, e perciò attribuisce allo stato e alla politica un ruolo marginale. La sinistra liberale è meno fiduciosa e più impaziente, e dà quindi allo stato e alla politica un’importanza molto maggiore. E’ sulla base di questo ragionamento che ho definito il berlusconismo, fondato come abbiamo visto su una fede cieca nella società civile, sulla nozione di stato amico e sull’ipopolitica, un liberalismo di estrema destra. Che, si noti, non coincide con il conservatorismo perché non concepisce la società come un’entità statica: al contrario, la vuole stabile e ordinata, ma in perpetua trasformazione progressiva. Al campo liberale, per altro, può essere ricondotto per tanti versi anche l’ottimismo del Cavaliere, per quanto iperbolico al punto da diventare talvolta ridicolo. Climi cupi e timori per il futuro, com’è noto, sono poco propizi al liberalismo. Oltre che in termini teorici il liberalismo berlusconiano è stato di destra anche in termini storici, visto che si è agganciato a tradizioni politiche che in epoca repubblicana si erano, o erano state, collocate da quella parte: quel poco di cultura liberale antigiacobina che c’era; tanto diffuso qualunquismo antistatalistico e antipolitico; l’orgogliosa fiducia nelle proprie capacità nutrita da alcuni settori della società civile soprattutto settentrionale. Proprio quest’ultimo terreno – un terreno, per così dire, “cultural-geografico” – rappresenta probabilmente il luogo di maggiore prossimità fra il berlusconismo e il leghismo. Prossimità, si badi, non coincidenza, considerato pure quel che abbiamo detto sopra sulla distanza fra le due ideologie. In estrema sintesi: la proposta politica del Cavaliere non poteva nascere che dalla Lombardia. O forse potrebbe dirsi, con precisione ancora maggiore, dalla Brianza. Perché in Lombardia più che in qualsiasi altra regione d’Italia è tradizionalmente presente una società civile vivace, fattiva, intraprendente, organizzata, convinta che se ci fosse meno stato potrebbe cavarsela non solo ugualmente bene, ma molto meglio. (…) In Italia però, come noto, la società civile non è ovunque altrettanto vivace, fattiva, intraprendente e organizzata che in Lombardia. Ed è su questo passaggio essenziale che l’emulsione ideologica berlusconiana si è rivelata instabile e contraddittoria. All’inizio di questo paragrafo ho affermato che liberalismo e populismo hanno potuto convivere soltanto a partire da una premessa assai precisa e alquanto azzardata. Possiamo vedere ora in che cosa sia consistita quella premessa: nella convinzione che il “popolo” fosse già liberale – che fosse capace di fare da sé, e non vedesse l’ora di farlo. Soltanto grazie a questo assunto è stato possibile riconciliare la persuasione che il paese fosse perfetto così com’era, e non andasse perciò raddrizzato né rieducato in alcun modo, con un programma di ristrutturazione dei poteri pubblici legato ai temi dello “stato amico”. Ovvero postulando non solo che quel programma gli italiani fossero perfettamente in grado di reggerlo, ma anche e soprattutto che si trattasse esattamente di quello che essi stavano chiedendo. Tolto quel postulato – immaginando ad esempio che dal “popolo” salisse in realtà una richiesta di maggiore protezione e di più stato – l’emulsione di liberalismo e populismo sarebbe impazzita. Che l’Italia fosse pronta a sbrigarsela da sola e desiderosa di ricette liberali, tuttavia, era in larga misura una finzione, o per lo meno un’esagerazione, dovuta almeno in parte pure alla prospettiva lombarda dalla quale si osservava il paese. Non solo: quella premessa si è venuta facendo sempre più fittizia man mano che ci si è allontanati dagli anni Ottanta e dal loro ottimismo, e si è entrati invece nell’atmosfera più cupa e tesa del Ventunesimo secolo – l’atmosfera dell’11 settembre e della crisi economica. Proprio a partire dai tardi anni Novanta non per caso il berlusconismo, seguendo il suo “popolo”, ha cominciato a mettere la sordina al liberalismo. Così facendo però non è riuscito affatto a risolvere le proprie contraddizioni interne. Perché i temi dello stato amico e dello stato minimo hanno rappresentato una parte non marginale e accessoria, ma essenziale e integrante della presenza pubblica del Cavaliere. La testa del polpo ideologico berlusconiano, abbiamo detto, è strutturalmente bifronte: la società civile liberale da un lato, il popolo populista dall’altro. Il “tentacolo” dell’ipopolitica è altrettanto ambiguo, perché l’avversione per l’eccesso di politica appartiene al liberalismo e la deriva antipolitica, invece, al populismo. Il “tentacolo” dello stato amico è prevalentemente liberale, ma può funzionare soltanto data la premessa, largamente fittizia, che il paese non veda l’ora di essere sottoposto a una terapia liberalizzante. Il terzo e ultimo “tentacolo” infine – la convinzione che l’Italia vada affidata a una nuova élite politica “platonica”, e in particolare al leader di quell’élite, le cui virtù siano garantite dal loro essere espressione di una società civile virtuosa – è prevalentemente populista. La teoria liberale infatti è naturalmente “popperiana”: antimonopolistica e sostenitrice a ogni livello della concorrenza, e sia pure una concorrenza cooperativa, il suo problema non è identificare una élite, ma tenere sempre aperta la competizione fra le élite. Dalla fiducia che il liberalismo nutre nella società civile non deriva insomma la convinzione che essa sappia esprimere organicamente una buona classe politica, quanto piuttosto che sia in grado di scegliere bene fra le classi politiche che le vengono proposte. Il liberalismo inoltre – è appena il caso di ricordarlo – mira a dividere il potere e a limitarlo. Là dove il Cavaliere, malgrado nei suoi discorsi non abbia mancato talvolta di far riferimento ai principi del costituzionalismo liberale, il potere ha aspirato semmai a concentrarlo, mostrandosi notoriamente insofferente dei vincoli istituzionali che limitavano la sua possibilità d’azione. E’ piuttosto emblematico per altro che il berlusconismo si sia distaccato dalla teoria liberale proprio là dove, come abbiamo notato in precedenza, si è messo su una linea di maggiore continuità con la storia d’Italia. Le componenti del berlusconismo che siamo venuti collocando sul versante populista, in conclusione, paiono poter essere ricondotte tutte entro i confini di un’unico fenomeno: l’utopia dell’immediatezza. Immediatezza, innanzitutto, nell’accezione corrente del termine, come assenza di ritardo temporale: la convinzione che la società italiana sia già perfetta qui e ora, e che possa perciò senza ulteriori indugi essere sottoposta a un programma liberale dal quale scaturiranno esiti positivi pressoché istantanei. Ma ancora di più immediatezza nel senso di assenza di mediazione: il rifiuto della politica e di un ceto di politici professionisti in quanto creatori di un mondo specializzato diverso da, e alieno a, quello nel quale gli “uomini qualunque” vivono quotidianamente, un mondo non necessario e anzi parassitario; e la fiducia nella capacità del “popolo” di gestire direttamente il proprio destino. Se lo osserviamo dal punto di vista del berlusconismo, dunque, il nocciolo duro del populismo parrebbe consistere proprio in questa utopia dell’immediatezza sia temporale sia strutturale. Sostanzialmente incompatibili l’una e l’altra con il liberalismo, che ha invece bisogno di tempi lunghi e grande pazienza, ed è persuaso che distinguere le diverse attività umane in sfere separate rappresenti una fondamentale garanzia di libertà. di Giovanni Orsina http://feeds.feedburner.com/BlogFidentino-CronacheMarziane

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