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In memoria di un compagno di lavoro – di Karol Wojtyla

Creato il 01 maggio 2011 da Viadellebelledonne

In memoria di un compagno di lavoro – di Karol Wojtyla

Lo scoppio della guerra cambiò in modo piuttosto radicale l’andamento della mia vita. In verità i professori dell’Università Jaghellonica tentarono di avviare ugualmente il nuovo anno accademico, ma le lezioni durarono soltanto fino al 6 novembre 1939. In quel giorno le autorità tedesche convocarono tutti i professori in un’assemblea che si concluse con la deportazione di quei rispettabili uomini di scienza nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Finiva così nella mia vita il periodo degli studi di Filologia polacca e cominciava la fase dell’occupazione tedesca, durante la quale inizialmente tentai di leggere e di scrivere molto. Proprio a quell’epoca risalgono i miei primi lavori letterari.

(…)

Per evitare la deportazione ai lavori forzati in Germania, nell’autunno del 1940 cominciai a lavorare come operaio in una cava di pietra collegata con la fabbrica chimica Solvay. Si trovava a Zakrzówek, a circa mezz’ora dalla mia casa di Debniki, ed ogni giorno vi andavo a piedi.

(…)

Ero presente quando, durante lo scoppio d’una carica di dinamite, le pietre colpirono un operaio e lo uccisero. Ne rimasi profondamente sconvolto: «Sollevarono il corpo. Sfilarono in silenzio. Da lui ancora emanava fatica ed un senso d’ingiustizia»…
I responsabili della cava, che erano polacchi, cercavano di risparmiare a noi studenti i lavori più pesanti. A me, per esempio, assegnarono il compito di aiutante del cosiddetto brillatore: si chiamava Franciszek Labus. Lo ricordo perché, qualche volta, si rivolgeva a me con parole di questo genere: «Karol, tu dovresti fare il prete. Canterai bene, perché hai una bella voce e starai bene…». Lo diceva con tutta semplicità, esprimendo così una convinzione abbastanza diffusa nella società circa la condizione del sacerdote. Le parole del vecchio operaio mi si sono impresse nella memoria.
Da Dono e Mistero

In memoria di un compagno di lavoro – di Karol Wojtyla

1

Non era solo. I suoi muscoli si diramavano in una folla immensa
finché alzavano il martello, finché vibravano di energia
ma questo durò solo finché egli sentì il terreno sotto ai piedi
finché una pietra non gli squarciò la tempia
e gli entrò nelle stanze del cuore.

Le mie mani appartengono forse alla luce, il cui fulgore interseca
i binari, i picconi, la recinzione in alto?
Le mie mani appartengono al cuore e il cuore non impreca
(tieni lontano il cuore dalle labbra, se labbra di imprecazioni si macchiano).

Io vi conosco, o uomini splendidi, senza formalità né maniere.
So guardare nel cuore degli uomini senza veli e illusioni.
Al lavoro le mani di alcuni, alla croce le mani di altri appartengono.
La recinzione in alto – è là, sui binari, gli sparsi picconi.

Nelle pietre ci sono dei vuoti – ed è meglio non trovarli!
Come in una conca piombano i blocchi schiantati dalla corrente.
I giovani cercano una strada. E tutte le strade
puntano dritte al mio cuore. Perdonano forse le pietre?

Ascolta se il mondo si fermi nell’equilibrio delle mani
che attraverso ogni esplosione della pietra e dell’uomo
tu ricomponi immutato sopra la recinzione, a una breve distanza:
- là certe volte un fanciullo imprudente passa di corsa.

Ma quell’equilibrio che tu da solo sostieni
Al tempo stesso sembra troppo vicino e remoto.

Bisogna insieme piegarsi, insieme ergersi.
(il fanciullo è imprudente, di là passa spesso di corsa).

Tra cuore, pietra e albero, è di nuovo il silenzio.
Ogni uomo può entrarvi. Se entra, sarà sé stesso.
Se non entra, qualunque sia l’apparenza, agli eventi
della terra egli ancora non partecipa.

2

Sollevarono il corpo. Sfilarono in silenzio.

3

Da lui ancora emanava fatica ed un senso d’ingiustizia.

Avevano bluse grigie, scarpe infangate fin sopra la caviglia.
Ed in quel modo rivelavano
che cosa tra la gente dovrebbe aver fine.

4

Il suo tempo si fermò con violenza. Sui quadranti di bassa tensione
le lancette, liberate di colpo, scesero a zero.

La pietra bianca entrò in lui, corrose la sua essenza
e a sé l’assimilò tanto da farne pietra.
5

Chi alzerà quella lastra?
Chi sdipanerà di nuovo i pensieri in quelle tempie squarciate –
come si squarcia l’intonaco di un muro?
Lo stesero supino su un lenzuolo di ghiaia.
Venne la moglie disfatta. Tornò il bambino da scuola.

6

Tutto qui? La sua rabbia sola dovrà passare negli altri?
Non maturava forse in lui con verità ed amore?
Generazioni future devono forse sfruttarlo come grezza materia,
privandolo della sua essenza più intima ed unica?

7

Le pietre di nuovo si muovono. Il carrello sparisce tra i fiori.
Di nuovo una scarica elettrica incide la cava.
Ma l’uomo ha portato con sé la segreta struttura del mondo
dove l’amore prorompe più alto se più lo impregna la rabbia.

Da Poesie Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1993, traduzione A. Kurczab e M. Guidacci



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